Prima Edizione – Vettorini, Roma, 4 giugno 1937

Altre Edizioni:

  • Quella villa è mia – Sonzogno, Milano,  4 giugno 1942
  • Quella villa è mia – Sonzogno, Milano,  4 giugno 1945


V.

Quando mi svegliai, attraverso le fessure della baracca penetrava la chiara luce del giorno. Dove mi trovavo?… Ah, sì, al fronte.
Mi piacque molto il fatto di trovarmi al fronte, in un ambiente nuovo, a cominciare una vita palpitante di emozioni e di incognite impreviste. Ma mi ricordai improvvisamente di quel sacco a pelo, entro cui avevo passato la notte in intima compagnia di… insomma, sì, di ospiti poco desiderabili: gli scienziati li chiamano anopluri, il volgo li chiama pidocchi. Nello stesso tempo, mi si levarono dinanzi alla mente, come due ombre sinistre, quel maggiore rossiccio e quel tenente Battelli, offuscando la sensazione di gioia che mi aveva portato il mattino.
(…)

Primo giorno di fronte. Avevo tanto 
cercato anch’io di farmi una cultura, 
all’ Accademia, ove ho sgobbato, affranto, 
indifferente ad ogni fregatura. 
Dopo m’han fatto andare a Susegana, 
da un colonnello in preda alla mattana ; 
e per un mese lì, senza respiro, 
regolamenti e tavole di tiro. 

Per quante sere, ahimé, sui sacri testi 
ho sbadigliato disperatamente, 
nel fosco «transatlantico», agli arresti! 
E giunto al fronte, fiducioso, ardente, 
per applicare alfin tanta dottrina, 
mi sento dire: «Faccia una latrina!» 
Ond’io ripeto, triste e sottomesso: 
«O idealismo, affogati in un cesso!»…

da Quella villa è mia – Sonzogno, Milano, 1945 – pag 38



XI.

Una poesia dolce, romantica, lacrimosa, come l’avrebbe desiderata Gisella. Ma era troppo difficile, e io non avevo più nessuna voglia di fare dei versi per altre donne che non fossero Laura… Un momento! Un anno prima, quando la mia fantasia era piena di donne sconosciute e fatali, avevo scritto delle terzine che una buona provinciale dimenticata conserva forse ancora oggi fra le pagine del libro azzurro dei sogni. Dopo tutto, con un po’ di buona volontà, con qualche ritocco, quei versi avrebbero potuto benissimo sembrare scritti per Gisella. Ma sì, eccoli:


Nulla di me tu sai: sono il randagio 
che si sofferma appena a un crocevia, 
come esitando, e poi riprende adagio 

il suo cammino senza soste, via 
fra la polvere arsiccia o fra la mota 
– sola compagna la malinconia – 

ma con l’anima intesa a una remota 
musica che l’avvince e che l’incita 
lungo la strada solitaria e ignota. 

Nulla di te io so; ma la rapita 
anima sa che il sogno tu sei, quello 
che s’incontra una volta nella vita. 

E vorrei qui deporre il mio fardello 
e trovar quella fede che mi manca 
nella luce d’un sogno unico e bello. 

E’ così dolce la tua mano bianca, 
son così dolci le tue labbra lievi 
sulla mia fronte tempestosa e stanca! 

Ma mi spinge lontano, oltre i tuoi brevi 
orizzonti, implacabile, un’arsura 
cui non giova la fonte ove tu bevi: 

questa sete d’ignoto, quest’oscura 
ansia che mi trascina ove le aggrada, 
ove mai non si giunge, alla ventura… 

Buona qualunque via, purché si vada! 
Alla mia mèta porta ogni cammino; 
ogni strada, sorella, è la mia strada. 

lo non so dove vegeti il giardino 
dei miei sogni, non so dove il mio dio 
mi chiami, ove m’attenda il mio destino. 

E se quest’inno ch’arde oggi nel mio 
petto sulle mie labbra affiora spento 
nella canzone triste dell’addio, 

è perché son legato al mio tormento, 
che non ha tregua: il cuore vagabondo 
m’incatenò lo spirito del vento. 

– E non potrò fermarmi mai! Ma in fondo 
al mio fardello di miseria, accanto 
a tutte l’ire e alle viltà del mondo,

serbo un scrigno d’ro al mio rimpianto 
alla mia fede; e tutto che di buono, 
tutto che dalla vita ebbi di santo, 

è lì racchiuso: io vi ripongo il dono 
d’una dolcezza nuova, che permane 
oltre il fugace incanto e l’abbandono. 

Amore! Io n’empirò le notti vane, 
io ne profumerò le vie deserte 
delle mie solitudini lontane! 

E nell’ore più stanche, quando incerte 
l’ultime stelle languiran sul mare 
dei miei naufragi, a te l’anima inerte 

in sogno approderà, per riposare 
sul tuo tenero cuore, umile e muta, 
per cercare il tuo sguardo, per baciare
le tue piccole mani, o Sconosciuta… 

da Quella villa è mia – Sonzogno, Milano, 1945 – pag 151-153



XII.

Ella vedeva in sogno il mio castello avito, ai cui speroni si frangeva l’onda tirrena… Non avevo mai posseduto un castello, lo giuro; nè ricordo di aver mai detto a Gisella di possederne uno, per quanto su questo non possa giurare. Può anche darsi che nella mia esaltazione avessi immaginato di procurarmi un castello coi frutti del baccarà. Sta di fatto che, per lei, questo castello era come se esistesse.
Ora, io sapevo che per alimentare l’amore di quella donna dovevo mantenere artificialmente in efficienza quell’aureola di mistero, di nobiltà, di ricchezza, attraverso la quale m’ero presentato al suo sguardo. E nelle mie lettere dovevo studiare a ogni modo di rimanere in un terreno ambiguo, fra la realtà e il sogno, evitando le volgari bugie, ma, nello stesso tempo, non deludendola. E mentre, scrivendole in prosa, per esempio, non confermavo nè smentivo l’esistenza di quel castello di cui ella mi aveva gratificato, ne parlavo nelle poesie che ella mi chiedeva:

Nella Rocca dei Marchesi, dove vissero i miei padri, 
c’è una sala nerazzurra, dove guardano dai quadri 
fiancheggianti le pareti una serie d’antenati, 
con la toga o la corazza, fieri, rigidi, accigliati. 
Poi che l’ira della terra questi poveri paesi 
malmenava, abbandonata fu la Rocca dei Marchesi. 
Ma talor – malinconia strane cose mi sussurra – ­ 
io vo solo a meditare nella sala nerazzurra, 
dove parlo in confidenza coi campioni della razza, 
io, campion senza valore, senza toga nè corazza… 

da Quella villa è mia – Sonzogno, Milano, 1945 – pag 157



XV.

Quel giorno stesso vendetti la mia nuova uniforme a prezzo di fallimento e invitai i compagni ad una sbornia.
– Guido, allora non ci affliggerai più con la duchessa? –
– No.
– Non ci romperai più l’anima con le tue poesie sentimentali?
– Sì, per l’ultima volta.

Fu un anno di dolci chimere, 
un anno di «t’amo! t’agogno!» 
in versi… Oggi ha fine il mio sogno, 
nutrito di due primavere. 

Finito in qual modo? Che importa? 
Tragedia? Vilissima farsa? 
La dolce visione è scomparsa, 
la pallida amica m’è morta…

da Quella villa è mia  – Sonzogno, Milano, 1945 – pag 283-284