
Prima Edizione – Sorzogno, Milano, 1945
Altre Edizioni:
- I campi della morte in Germania nel racconto di una sopravvissuta – Sorzogno, Milano, 1945
- I campi della morte nel racconto di una sopravvissuta a Birkenau – Edizioni Paoline, Milano, 2010
L’ARRESTO
La mattina del 3 Dicembre, verso le otto sentimmo squillare il campanello. Era la portinaia, la quale correva ad avvertirci, pallida e tremebonda, che erano venuti degli agenti a chiedere di mia moglie, dei miei figli e anche di me, e che lei, secondo le nostre istruzioni, aveva risposto che eravamo sfollati a Como. E in questa menzogna aveva risolutamente insistito, anche dopo le minacce degli agenti stessi.
“Per carità, scappé, scappé!…”, ci incitava la donna, terrorizzata.
Di lì a mezz’ora aravamo già lontani, con pochi oggetti che avevamo potuto mettere alla rinfusa in un paio di valigie.
E incominciò la piccola odissea: per diciassette mesi andai randagio, con due figliuoli e con la moglie ebrea, nudi, come scampati da un naufragio, cercando i più remoti nascondigli: con la moglie giudaica e con due figli!…
Mia cognata Sofia, purtroppo, non fu ugualmente fortunata. Il 2 dicembre, un autocarro si fermò dinanzi “L’Alpina”, il sanatorio dove da alcuni anni lavorava, e ne scesero otto agenti della Questura di Sondrio, reclamando la consegna delle due dottoresse, Sofia Schafranov e Bianca Morpurgo, un’altra israelita, che prestava servizio nello stesso sanatorio; la consegna delle due dottoresse e di quanto possedevano, poiché tutti i beni degli ebrei venivano confiscati.
Le due donne vennero rinchiuse nelle carceri giudiziarie del capoluogo, insieme a quanti altri ebrei erano stati rastrellati nella provincia. Furono anche arrestati i genitori della Morpurgo. Mia suocera, che era sfollata nel villaggio di Tresivio, non lontano dal sanatorio, quando apprese ciò che era avvenuto, fuori di sé dall’angoscia , si recò a Sondrio e si presentò in Questura per chiedere notizie della figlia. Per conto suo era convinta che, vecchia e inferma, ella non aveva nulla da temere; d’altronde, il pensiero di vivere lontana dalla figlia le era intollerabile ed era decisa a dividerne la sorte.
“Ha fatto bene a presentarsi da sé, signora; così ci ha evitato il disturbo di venirla a prelevare”, le disse con un ghigno il solito solerte funzionario, un siciliano di cui mi sfugge il nome e che può anche darsi faccia oggi parte del C.L.N. di quella Questura.
Ciò mi fu narrato dalle due stesse prigioniere, quando, verso la fine di quello stesso mese, venuto a conoscenza del loro arresto. Corsi a trovarle nelle carceri di Sondrio.
da I campi della morte – Edizioni Paoline, Milano, 2010 – pag 15-17
LE SELEZIONI
Per sfollare il Revier, di quando in quando, solitamente ogni settimana o dieci giorni, si procedeva alle “selezioni”. I medici tedeschi passavano rapidamente in rassegna le ammalate e, talvolta basandosi sui rapporti delle dottoresse, più spesso al loro proprio giudizio, facevano piazza pulita condannando le incurabili alla cremazione.
Altri due medici si alternavano al dottor Klein in quelle visite; due individue, tedeschi al cento per cento, che avevano ben altra autorità e ben altre maniere: il dottor Konig, un uomo alto e asciutto, poco più che trentenne, biondo, dal naso aquilino, con grosse lenti da miope, freddo e sprezzante, e il dottor Mengele, sui trentacinque anni, biondo anche lui, alto, robusto, di bella presenza, ma con nel volto ben pasciuto e nello sguardo sfuggente qualcosa di repulsivo. Quando egli parlava, non guardava mai negli occhi i suoi interlocutori, quasi temesse che nei suoi occhi si potessero leggere chi sa quali mostruosi segreti. Era l’anima nera del Lager, un sadico crudele e spietato, che si divertiva a torturare migliaia di vittime con i suoi tenebrosi “esperimenti”. Sembrava che fosse specializzato, soprattutto, in ricerche scientifiche su gemelli; ed era riuscito a procurarsene, fra ebrei e ariani, un centinaio di coppie, provenienti da tutte le parti d’Europa. A che cosa gli servissero quei gemelli, naturalmente, non lo sapevamo; ma egli non avrà mancato di esporre i risultati delle sue sapienti ricerche ai professori berlinesi, che, di tanto in tanto, si recavano in visita nel campo.
Per noi, il dottor Mengele era un orco. Quando egli giungeva nel Block, io e le mie colleghe c’impalavamo sull’attenti e abbassavamo riverenti il capo alle sue contumelie. Ed era tanto il terrore che egli incuteva, che forse le stesse ammalate, sotto le loro coperte, scattavano in posizione d’attenti. Solo i cadaveri, per ovvie ragioni, rimanevano indifferenti alla sua presenza.
da I campi della morte – Edizioni Paoline – Milano 2010 – pag 43-44
LA STRAGE
Il lagerfuhrer, Hossler, colui che al nostro arrivo ad Auschwitz aveva gratificato di un calcio la mia mica Morpugo, era un ufficiale delle SS, esattamente un Obersturmfuhrer. grosso, corpulento, con delle vene turgide sulla nuca e sulla fronte, terrorizzava tutto il campo con la sua crudeltà e la sua violenza. Ogni giorno, si divertiva nel Bunker a frustare e a seviziare personalmente i prigionieri. In compenso, amava la musica, e una schiera di musicisti e di cantanti, in gran parte internati italiani, andavano a rallegrare i suoi ozi serali nella festosa dimora che egli aveva nel Lager. vi abitava con la moglie e con tre bambini, ma si sapeva che aveva un’amante fra le stesse internate: una bella donna, polacca di origine tedesca, la contessa Waffenhover, internata ad Auschwitz per motivi politici. Hossler l’aveva nominata direttrice di un Block di ebree, il N. 25, divenuto tristemente famoso in tutto il campo per la ferocia con cui la polacca, accanitamente antisemita e istigata dall’amante, trattava le prigioniere affidate alla sua vigilanza.
Del resto, quella ferocia si generalizzò in tutti i Block e il trattamento degli ebrei, già così spietato, divenne ancor più duro, dopo l’attentato del luglio 1944 contro Hitler. Non so che cosa gli israeliti avessero a che vedere con quell’attentato; fatto sta che fu dato l’ordine di massacrare, durante il solo mese di agosto, mezzo milione di ebrei. Hossler, il Nerone di Auschwitz, organizzò una strage memorabile.
Per giorni e giorni, arrivarono continuamente convogli di deportati provenienti dalla Francia, dall’Olanda, dalla Norvegia, dall’Italia, da altri campi tedeschi, e poiché i forni non erano più sufficienti…, le vittime, non appena scese dai treni che le depositavano ora direttamente a Birkenau, venivano gettate in grandi fosse, appositamente scavate, e bruciate vive, dopo una sommaria irrorazione di nafta. Altre venivano avviate verso speciali recinti, dove venivano rinchiuse e lasciate morire di fame. Nell’aria aleggiava un intollerabile odore di bruciato e di corpi putrefatti.
Quattromila bambini, dalla più tenera età ai dodici o tredici anni, scamparono all’immane massacro. E molte di noi eravamo stupite da quella improvvisa pietà dei carnefici verso l’infanzia innocente, ma nel settembre, in occasione della grande festa ebraica del capodanno, il Lagerfuhrer radunò la quasi totalità del campo maschile e annunziò loro che intendeva celebrare quella festa, per la loro libertà e la loro salute, secondo non so quali presunti riti del popolo d’Israele e che avrebbe immolato al loro dio quei quattromila bambini. I quali furono tutti annientati nei forni crematori.
da I campi della morte – Edizioni Paoline – Milano 2010 – pag 57-58
L’ULTIMA TAPPA
Trascorsi due giorni in quell’agonia ambulante, di cui mi resta un ricordo nebuloso, finché il 25 aprile, il convoglio giunse a Mauthausen. Non ero più una medichessa; ero una povera moribonda, come le altre. Soprattutto, ero sfinita dalla fame. In dieci giorni, avevamo mangiato una sola volta: il borgomastro di un villaggio cecoslovacco ci aveva procurato del pane bianco e delle zuppe calde che, conoscendo forse i sistemi tedeschi, volle ci fossero distribuiti i suoi occhi.
A Mauthausen mi parve di rinascere, quando quelle ignobili Aufseherin del convoglio, specialmente colei che mi aveva frustata, minacciando di chiudermi nel vagone dei cadaveri, ci consegnarono a delle altre, con l’augurio di una buona morte.
Nell’ospedale del Lager, rimasi a letto quindici giorni, durante i quali vi furono dei momenti in cui sembrò che quell’augurio dovesse proprio avverarsi. Quando mi riebbi, potei constatare che un vero caos regnava nel campo. Il caos e la fame. Non si vedevano più che poche tedesche, ed erano diventate tutte, improvvisamente, gentili e servizievoli. C’erano delle volte in cui io ero perfino la “signora dottoressa”.
Poi, un bel giorno, scomparvero esse pure. Era il 15 maggio. Vi sono delle date che restano impresse in eterno nella memoria. A Milano, nessuno dimenticherà mai la data del 25 Aprile; io non dimenticherò mai quella del 15 maggio.
da I campi della morte – Edizioni Paoline – Milano 2010 – pag 90