M’è cara la mia terra, la ritrovo 
come nel sogno d’un lontano aprile, 
questa calabra terra aspra e gentile 
con il suo volto antico e sempre nuovo, 

coi suoi brulli dirupi ermi e scoscesi, 
scavati dalle indocili fiumare,
da dove ancor si specchiano nel mare 
le fortezze angioine e aragonesi: 

questa terra che fu nei suoi begli anni, 
la Magna Grecia e che sfido negli evi, 
la ferocia d’Annibale, e gli Svevi 
e i Saraceni e i Turchi ed i Normanni;

terra d’asceti,terra di pastori 
e di guerrieri dove, ad Amantea 
l’Italia trovò l’ultima trincea 
contro l’audacia dei conquistatori. 

E il tragico passato ancor rivive
in un silenzio attonito e sognante, 
sotto il sole del Sud allucinante, 
sulle tirrene e sulle jonie rive, 

dove superbi templi ebber gli dei, 
e vissero i mortali in un alone
di gloria a Locri, a Sibari, a Crotone, 
la città dei Trezenii e degli Achei. 

Ed oggi, gaia in quel decoro antico,
ferve Cosenza in riva al suo Busento
che culla <<nel suo gorgo sonnolento>>
il millenario sonno di Alarico;

e, memore di lutti e di rovine 
Reggio risorta, bella e solitaria, 
che mostra al sole la sua veste d’aria, 
coronata di zagare e di spine;   

e Catanzaro, in cima alla sua rupe,
splendore di fantastici orizzonti; 
e borghi appollaiati in cima ai monti, 
in un intreccio di leggende cupe;

briganti, agguati, stragi… Ma la Sila, 
folta di selve e ricca d’arsenali, 
sorride dai suoi laghi artificiali 
alla lieta leggenda del Duemila: 

a un felice e fecondo messidoro 
che, chiusi oscuri secoli di stenti,
concilia alle sue miti umili genti 
un segno di ricchezza e di lavoro.