Prima Edizione – Ceschina – Milano – 1959

Altre Edizione:

  • Storia di Milano in sesta rima – Mursia – Milano 1989
  • Storia di Milano in versi – Pancallo Edizioni – 2009 

LE ORIGINI

Canto l’armi pietose e il capitano?
le donne, i cavalier, l’armi e gli amori?…
Non propriamente: canto te, Milano,
le tue vicende fin dai primi albori,
le gesta dei tuoi uomini preclari,
da Belloveso al sindaco Ferrari.

Gli àuguri sacri, quando tu nascesti,
non chiesero presagi agli avvoltoi,
né di te si curarono i Celesti;
né illustri figli di superbi eroi,
dagli occhi foschi di predestinati,
scavarono per te solchi quadrati.

Celti raminghi sulla tua pianura
edificaron qui, tra il fango e il gelo,
povere case senza architettura:
neppure l’ombra, ohibò, d’un grattacielo!
L’anno preciso? Quando il borgo sorse,
in verità, nessuno se n’accorse.

Consacrato non fu da nessun atto,
né fu cinto di mura e di castella.
In quanto al nome, semplice ed esatto:
«lan» vuol dir terra in gallica favella,
onde l’antico nome Mediolano:
«terra di mezzo» del lombardo piano.

Fu una tribù degl’Insubri, allorquando
regnava a Roma re Tarquinio Prisco,
che fondò Mediolanum, al comando
del duce Belloveso. Io non capisco,
piuttosto, come mai quel capo scelta
proprio in quel luogo stabilì la scelta.

Era una plaga piatta e acquitrinosa,
senza risorse, senza allettamenti:
neppure un fiume, un lago, una qualcosa
che lusingasse quelle antiche genti:
ci fosse stata almeno una collina,
anche all’altezza della Madonnina!

E invece niente, mentre lì vicino,
a poche leghe, c’eran molti laghi,
e ricchi fiumi (il Po, l’Adda, il Ticino),
fertili terre e paesaggi vaghi.
Ma Belloveso, senza esitazione,
piantò le tende in mezzo a quel nebbione.

Avrà detto ai suoi fidi: «Il luogo è brutto,
ma son tempi di guerre e d’invasioni,
e penso che nessuno, dopo tutto,
vorrà prendersi qui reumi e geloni
per conquistar le nebbie e le paludi»
(L’eco rispose in gallico: «T’illudi!»)

Poteva Belloveso immaginare
che quella sua città grama e succinta
avrebbe attratto poi, come zanzare,
guerrieri e condottieri d’ogni tinta?
che il borgo su quel suo celtico «lan»
sarebbe diventato il gran Milan?…

Potevan prevedere i nostri padri
che a venticinque secoli da allora,
con tanti luoghi comodi e leggiadri,
pronti ad offrire un’ottima dimora,
gente su gente, che il nebbione ammalia,
sarebbe accorsa qui da tutta Italia?..

Come ciò accadde, e dopo quali eventi,
è detto nei capitoli seguenti.

da Storia di Milano in versi – Pancallo Edizioni – 2009 – 9-11


VANNO E VENGONO…
(Vanno i Goti, vengono i Longobardi)

Dov’è Milano? Dove le sue chiese,
le sue torri, i suoi parchi e le sue donne?…
Non v’è piú che un deserto: al ciel protese,
le scheletrite sedici colonne
delle sue Terme appaion da lontano,
a ricordar che lí sorse Milano.

Rimane il Circo: al ferro ed alla fiamma
ha resistito la massiccia mole;
ma non c’è nessun gioco, ora, in programma:
e, scioltasi la neve, il nuovo sole
piú non vi trova che dell’ossa ignote
e bianchi teschi dalle occhiaie vuote.

Ma se Aquileia, la città romana
dalla furia degli Unni incenerita,
restò un ricordo nella storia umana,
presto a Milano ritornò la vita:
i Milanesi alle città vicine
preferiron gli sterpi e le rovine.

Si rimboccan le maniche: al lavoro!
Là, dove un giorno s’innalzò una reggia
meravigliosa di granito e d’oro,
di cui nel mondo ancor si favoleggia,
sorgon le prime timide capanne,
costruite col fango e con le canne.

S’utilizza ogni rudero, ogni buco,
per aprirvi un negozio, un’officina…
Narsete, intanto, il generale eunuco,
con una forte armata bizantina,
sbarca in Italia e dopo egregie imprese,
per quanto eunuco, libera il paese.

O, meglio, scaccia i barbari, costretti
a ritornare nelle proprie tane;
ma, fin d’allora, questi benedetti
«liberatori» ce n’han date grane!
Prepotenze, angherie, nuove rapine…
onde il proverbio: al peggio non c’è fine.

Ma presto i Bizantini fan fagotto:
scendon dalla Pannonia i Longobardi,
nell’anno 568,
piú feroci dei Goti e piú gagliardi,
e, anch’essi distruggendo a tutto spiano,
l’anno seguente arrivano a Milano.

La povera Milano, o bene o male,
in trent’anni di pace o poco meno,
benché non fosse piú la capitale,
era risorta e funzionava in pieno.
Diceva il forestiero stupefatto:
«Di nuovo è un gran Milan! Come avrà fatto?…

C’eran per tutti un pane ed un piccone;
né si trovava un solo milanese
che all’emigrato, barbaro o terrone,
si sognasse di dir: «Va al tuo paese!»
Purtroppo, (disarmati, non codardi)
non lo disser neppure ai Longobardi…

Era, in quel tempo, vescovo Onorato
(fu fatto santo, in seguito, anche lui):
«Fratelli», disse al popolo prostrato,
«arriva Belzebú, ragion per cui
io me la filo a Genova. In compenso,
vi raccomando a Dio, ch’è buono e immenso».

Insieme a lui fuggirono i potenti;
si rifugiaron, altri, in quel di Como;
rimasero in città solo i pezzenti,
gli animosi e gl’invalidi. Nel Duomo,
pregava il popolino umile e imbelle:
«Speriamo almeno di salvar la pelle,

col vescovo Onorato e col Governo
che ci han raccomandati al Padre Eterno!»

da Storia di Milano in versi – Pancallo Edizioni – 2009 – 47-49


L’ASSEDIO E LA RESA DI MILANO

1160. I Cremonesi
assedian Crema, il Barbarossa avanza 
coi Lombardi alleati: i Milanesi 
fortifican le mura a tutt’oltranza, 
mobilitando il popolo compatto… 
È il 25 agosto: ed ecco, a un tratto,

suonare a stormo tutte le campane, 
cupo presagio alla città sgomenta: 
brucia la casa di Lanfranco Cane 
a Porta Comasina; invan si tenta
di domare le fiamme: il vento è forte:
arde mezza città, brucian le scorte…

Non resta piú che un ultimo rimedio 
(la resistenza ormai sarebbe vana): 
cercar soltanto d’impedir l’assedio 
mediante la guerriglia partigiana, 
molestando i Tedeschi, nell’attesa 
d’organizzar di nuovo la difesa.

Ma il fiero imperator, svernato a Lodi,
nell’anno 1161,
decide alfine di piegar quei prodi 
con un’arma infallibile: il digiuno; 
fa intorno alla città terra bruciata, 
ché non vi cresca un filo d’insalata.

Dopo di che, s’accampa alla Commenda;
e chi s’azzarda a uscire dalle mura 
è fatto segno ad una caccia orrenda, 
che si concluderà con la tortura: 
nel miglior caso, tornerà a Milano
senza un occhio, un’orecchia od una mano.

Milano, infine, stretta dal cilizio, 
soccomberà: la fame non perdona.
E il primo marzo. E cominciò il supplizio: 
andati a Lodi i consoli in persona, 
al Barbarossa dalla dura grinta 
resero la città stremata e vinta.

Trecento cavalieri avendo a scorta,
gli alfieri, il giorno 4, deporranno
le trentasei bandiere – sei per porta – 
solennemente ai piedi del tiranno, 
umili, scalzi, senza dir parola,
baciando il fango appreso alle sue suola.

Mastro Guitelmo gli darà le chiavi
della città sgombrata; e il Barbarossa 
gli abitanti vedrà, simili a schiavi, 
sfilare in quell’orribile Canossa,
mentre il Carroccio, ornato come in guerra,
lento s’abbasserà toccando terra.

Misericordia imploreranno invano
le donne, i vecchi, i pargoli innocenti 
nati al dolore, con le croci in mano 
tutti, prostrati come penitenti. 
L’imperatore, dall’aurato trono, 
muto e superbo, negherà il perdono.

Dirà soltanto, perfido e glaciale: 
«Peccato non sia qui la mia signora!»… 
E vorrà che la scena, tale e quale, 
giunta sua moglie, si ripeta ancora: 
capite, pure il bis, come a teatro!… 
Poi, su Milano passerà l’aratro.

(Ma occorre dir che, in questo, gl’Italiani
gli diedero una mano, anzi, due mani…)

da Storia di Milano in versi – Pancallo Edizioni – 2009 – 105-107


LA CITTÀ DEI GRATTACIELI
La fiera di Milano

Non so se fra la gioia od il cordoglio 
dei vecchi meneghini piú fedeli, 
Milano sempre piú, piena d’orgoglio, 
diventa la città dei grattacieli.
Ci guadagna l’estetica, o ci perde?
Non era meglio, forse, un po’ di verde?…

I pareri, si sa, sono discordi;
troviamo, infatti, il solito ottimista, 
che si sente commosso nei precordi 
e che proclama, alla superba vista 
– di quei giganti sorti dall’asfalto:
«E proprio una città che tende all’alto!»

C’è invece il pessimista recidivo,
dal «mugugno» tenace e intransigente, 
che in fondo vede un unico motivo 
pel quale il grattacielo è conveniente, 
dato che sulla terra, a quanto pare, 
ormai non c’è piú niente da… grattare.

La Madonnina guarda esterrefatta:
ormai ci ha fatto l’occhio pure lei,
è vero, e tuttavia – per quanto piatta, 
senza un colle o un’altura, – amici miei, 
forse amava cosí la sua Milano,
ferma al secondo, al terzo, al quarto piano

coi suoi vecchi cortili e i suoi balconi 
dall’aspetto tranquillo e popolare, 
e le sue grige case sui bastioni, 
piene di poesia crepuscolare:
la Madonnina, ohibò, di questo passo,
la guarderemo un dí… dall’alto in basso!

Ma, dopo tutto, i nostri Milanesi
non hanno torto se si dan qualche aria; 
a dimostrarne le virtú palesi, 
basta la loro Fiera campionaria: 
è il progresso meccanico che stila 
l’antologia dei sogni del Duemila.

Nel 1919,
era nata l’idea; ricordo vivo,
che i vecchi Milanesi ancor commuove: 
Porta Venezia, l’anno successivo, 
vide la Fiera (in forma di pagoda:
lo stile che in quel tempo era di moda).

In redingote, come allor s’usava,
il Sindaco, con dietro gli assessori, 
andò sul posto, fece la sua brava 
concione innanzi a mille espositori
ed il nastro tagliò, gridando: «Evviva! 
Bisogna incoraggiar l’iniziativa».

Venne, dopo, la guerra, e una gragnuola 
di bombe la ridusse a un polverio. 
Gasparotto giurò, col pianto in gola: 
«Milanesi, fratelli, popol mio,
anche se quest’idea può sembrar matta, 
rifaremo la Fiera». E fu rifatta.

Oggi è l’emblema della cornucopia, 
questa, è la sagra dell’intelligenza,
è il «venghino signori» in bella copia 
e innalzato all’ennesima potenza, 
è un concerto sinfonico ideale, 
orchestrato da un Wagner industriale;

è la centrale degli affari d’oro,
il non plus ultra dei prodotti in serie;
è la «pagella tipo» del lavoro, 
con dieci e lode in tutte le materie. 
Mamma Italia la guarda e se n’estasia: 
questa è la Fiera per antonomasia…

Ed è un atto di fede, soprattutto: 
mentre, armato di ferro e di cobalto, 
il mondo rischia d’essere distrutto
da un piú tremendo e tenebroso assalto, 
fervido e insonne il cuore di Milano 
spera e confida nel buon senso umano.

E qui vi lascio, ripetendo anch’io: 
Milanesi, fratelli, popol mio!

da Storia di Milano in versi – Pancallo Edizioni – 2009 – 236-239