Prima Edizione – Zanichelli, Bologna, 28 febbraio 1925



VELENO

Era in sostanza un alchimista e forse 
aveva nel mondo una meta; 
ma per disgrazia un brutto dì s’accorse 
che invece era un poeta. 

Forse è il contrario: era un poeta, un’aurea 
sperduta figura d’artista; 
ma un giorno si distrasse ed una laurea 
lo proclamò alchimista. 

Poetò, distillò, secondo i casi, 
errando, annoiandosi assai. 
Concentrò qualche volta acidi e basi, 
ma il suo cervello mai. 

Finché, sdegnato, ruppe le sue bocce 
con tutti i suoi vani reagenti 
e conservò soltanto alcune gocce 
torbide, strane, ardenti, 

che chiamò “versi” e versi son più o meno, 
ma sanno di lacrime amare! 
Le distillò lui stesso da un veleno 
che non potè gittare, 

che giornalmente gli corrode il cuore, 
i nervi, la mente intristita, 
ma ch’egli beve ancoro come un liquore 
terribile: la Vita…

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925



FEDE

[A Fanny] 

“Non v’amo” tu mi scrivi; e ai miei richiami 
tendi l’anima tua. ” Non v’amo” e intanto 
so che mi pensi ed ami
la mia triste passione ed il mio canto. 
E il tuo cuore di rondine, volando 
pei tuoi cieli sereni, 
s’impiglia a quando a quando 
nella rete leggiera 
dei miei vani poemi… 
Hai visto mai le nubi in primavera 
incatenar la luna fuggitiva? 
Ma dopo il vento arriva 
e libera la bella prigioniera; 
si rifugian le nubi negli estremi 
lembi del cielo, o lasciano soltanto 
un piccolo vapore 
che qualche volta si dissolve in pianto. 
Così tu giuochi col mio folle amore… 

“Non sperate” tu scrivi e invece io spero, 
e t’attendo con l’anima devota, 
pazientemente; e forse tu verrai, 
attratta dal mistero 
d’una favola ignota 
che ti lusinga mentre tu non sai… 
Vi son certi vulcani 
– non so più dove, in California, a Giava… ­ 
che dai crateri ardenti 
lancian talvolta, in mezzo 
all’infocata lava, 
dei blocchi d’oro grezzo. 
E basta esser pazienti 
– dicono almeno i cercatori d’oro ­ 
basta star fermi lì mattina e sera, 
per anni forse, e attendere il tesoro, 
per esser ricchi poi la vita intera…

Ed io fo come loro, 
quei cercatori d’oro 
che attendon la fortuna che verrà: 
paziente, a capo chino, 
attendo che il destino 
mi getti un pezzo di felicità.

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925



CHIROMANZIA

Un giorno – che malinconia! 
ricordo che in un ospedale 
una damina la quale 
sapeva di chiromanzia, 

tra l’altro, toccandomi il pomo 
d’Adamo mi disse con gesto 
solenne: – Tenente, voi presto 
diventerete un grand’uomo. – 

Io la guardai costernato; 
ed ella imperterrita, piano, 
attenta mi lesse la mano: 
– E vedo una donna che il fato 

conduce sul vostro cammino… 
– Signora, una sola? – le chiedo – 
– Oh, non scherzate! La vedo 
sul libro del vostro destino. – 

– È almeno carina? – Anche bella – 
– Oh, n’ero di già persuaso!- 
– Voi l’amerete: e per caso 
v’incontrerete con quella. 

Forse anche lei v’amerà – 
diceva la mia chiromante – 
ma siete così stravagante 
che, credo, v’abbandonerà! – 

E in: una triste giornata 
d’aprile (pioveva; ero pieno 
di tedio) non vidi in un treno 
l’Incognita profetizzata?… 

Io la guardavo; però, 
non come si guardano tutte 
le donne che non sono brutte: 
io la guardavo, non so… 

Il treno nel fosco grigiore 
del giorno correva veloce. 
Ed una dolcissima voce 
mi chiese se fossi un pittore 

(avevo la barba e i capelli 
divisi alla Cristo: perciò!…) 
– No, signorina; non so 
nemmeno che siano i pennelli… – 

M’intesi un tantino ridicolo; 
le dissi: – Sono uno studente 
che veste da sotto tenente 
perché la patria è in pericolo… – 

Fu questa la breve, apertura 
del nostro discorso, che’ poi 
parlammo di guerra, d’eroi, 
d’artisti, di letteratura… 

Le recitai il canto del Locchi 
“La Sagra di Santa Gorizia”,
e la mia nuova amicizia 
guardavo ogni tanto negli occhi .

Quegli occhi!… Ricordo: l’aspetto, 
la voce, la mano di neve… 
Finito il viaggio, assai breve, 
io le promisi un sonetto. 

Fu allora che ascesi il Parnaso 
con enfasi: e a lungo sognai… 
Ed ecco che m’innamorai 
così, per un semplice caso. 

Fu un anno di dolci chimere, 
un anno di “t’amo! t’ agogno!” 
in versi… Oggi ha fine il mio sogno 
nutrito di due primavere. 

E forse non sembra, ma sono 
triste. La mia chiromante 
aveva ragione: al fiammante 
amore seguì l’abbandono… 

Ed ora, toccandomi il pomo 
d’Adamo, sospiro e rifletto: 
e malinconico… aspetto 
di diventare un grand’uomo!

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925



INSOFFERENZA

O mio piccolo cuore inverecondo, 
che picchi sempre come un mendicante, 
iO t’ho portato per le vie del mondo 
in cerca del tuo sogno più distante; 

via, fra le solitudini più arcane 
t’ho condotto e gli strepiti più vivi; 
fra le contesse e fra le cortigiane, 
nei palazzi più splendidi e nei trivi 

più foschi; t’ho gittato alle immondezze 
ammonticchiate ai canti della via; 
t’ho nutrito di gaudio e di carezze, 
t’ho abbeverato di malinconia; 

ho di te fatto un’ostia immacolata 
offerta in sogno ad una bocca pura; 
la tua vana stanchezza ho trascinata 
pei crocicchi deserti alla ventura…

Ho prodigato a te filtri d’incanto 
che dal, dolore sprem? no la gioia: 
e nella gioia hai sospirato il pianto, 
sempre tornando, vinto dalla noia, 

nella tua gabbia, prigioniero insonne, 
esasperato dalla nostalgia. 
T’infastidivan gli uomini; le donne 
ti facevan venire l’anemia! 

M’hai chiesto quasi di fuggir dal mondo; 
ed io t’ho segregato in questa cella 
d’anacoreta, solitaria: in fondo 
Napoli ride spensierata e bella. 

T’ho fornita un’amante birichina, 
anch’essa bella, anch’essa spensierata; 
il caffè e latte sempre alla mattina, 
meno d’un pasto mai nella giornata! 

Tu m’hai spinto perfin delle superne 
sfere dell’Arte a profanar le soglie: 
anche in fiorir di primavere eterne 
hai trovato un cader cupo di foglie!… 

E ti rivedo qui, fra le tue fedi 
sbattute, impenetrabile, profondo; 
e ancora chiedi e non sai mai che chiedi, 
o mio piccolo cuore inverecondo…

A che “sospiri? A quelle bianche vele, 
ali di cigno sull’azzurro mare? 
Ancora inestinguibile, crudele, 
ti punge l’ansia d’andare, d’andare?

Non t’obbedisco più. Mi costi troppo, 
o mio piccolo cuor, troppo m’annoi! 
Fuggi tu sol: ti libero al galoppo; 
raggiungi quelle nuvole se vuoi: 

nuvole d’oro, nuvole d’argento 
che vanno sempre e non si stancan mai… 
T’apro la gabbia: va, lìbrati al vento! 
Ti sarò grato se non tornerai. 

Sarai felice tu nel sommo oblio 
delle cose terrestri, dell’amore, 
di tutti i mali della vita, ed io 
d’essere alfine un uomo senza cuore!

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925



L’INCUBO

Lo conosco: è uno spirito funesto 
che m’insegue dovunque e mi tortura; 
oggi mi ha preso e mi ha gittato in questo 
paese, in quest’albergo di paura… 

Ma che paese è questo? Per le strade 
buie ho incontrato solo qualche nero 
passante incappucciato, quasi rade 
ombre migranti verso il cimitero. 

Qui, solo un cameriere che sonnecchia 
stanco, acciaccato forse da un malanno, 
un gatto addormentato ed una vecchia 
che sembra la Vendetta sul suo scanno. 

E questa stanza? Tutto è polveroso, 
vecchio, disfatto. Agli angoli s’annida 
– sembra – il silenzio, truce, minaccioso…
Fa pensare alla stanza d’un suicida. 

La lampadina elettrica, avvampata, 
ha un riso bianco, attonito, di cieca. 
Una mosca nel sonno disturbata 
ha un rabbioso ronzio: forse m’impreca. 

E questi oggetti intorno… Ognuno d’essi 
con diffidenza il nuovo intruso scruta; 
tra loro ne bisbigliano sommessi; 
e sono tutti una domanda muta: 

– Che vuoi da noi? – Dio mio, come disanima 
tutto ciò! Com’ è triste! E sono solo, 
solo… Dov’è fuggito il mondo? Ho l’anima 
squallida e fredda come quel lenzuolo 

su cui dovrò passar la solitudine 
d’una notte. Quel letto! Ho sopportato 
chi sa quante miserie, e l’abitudine 
l’ha reso così tetro e rassegnato! 

Stanotte vedrò svolgersi la danza 
disperata dell’ore: ad una ad una 
io le vedrò passar per questa stanza, 
ciechi fantasmi della mia sfortuna… 

Ma chi, chi m’ha cacciato in questo sogno 
di morte soffocato ed opprimente? 
Voglio vedere gli uomini; ho bisogno 
di parlar con un’anima vivente. 

E m’attacco convulso al campanello. 
Arriva trafelato il cameriere; 
gli sorrido così come a un fratello: 
– Senta… – lo prego invano di sedere. 

Mi crede pazzo; tituba; si tuffa 
in un inchino fino al pavimento; 
accenna un sorrisetto: oh, com’è buffa 
quell’ipocrita smorfia di spavento! 

All’inferno, all’inferno se ne vada!… 
Mi distendo sul letto. Ora mi sembra 
che un torpore lentissimo m’invada, 
si propaghi per tutte le mie membra. 

Non s’ode nulla – pure quella mosca 
s’è data pace – nella plumbea stasi… 
Ed ecco, come un chiodo, un’idea fosca 
mi si conficca dentro il cranio, quasi 

sotto il martello d’un maligno fabbro: 
la morte… Se venisse qui stasera? 
Non uno che m’accenda un candelabro! 
Non uno che mi dica una preghiera!…

No, Morte, no! Ti chiederò perdono, 
se non verrai: mentisce chi t’agogna. 
Io t’ho implorata ed ho mentito: sono 
tutti, tutti i miei versi una menzogna! 

Voglio strappare l’anima intristita 
a quest’aride lotte, a questo dramma 
di fantocci e riaccendere la vita 
che mi si spegne a una più pura fiamma. 

Ritornerò nel mio paese sozzo, 
fra lo squallore delle mie brughiere, 
pur di sfuggire a questo eterno cozzo 
col fato… Cameriere! Cameriere!…

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925



ALLA SCONOSCIUTA

Nulla di me tu sai: nè dov’io vada, 
nè donde venga e meno ancor chi sia. 
Domani tornerò sulla mia strada 

– sola compagna la malinconia – 
e penserò che un sogno passeggiero 
accarezzò la stanca anima mia. 

Resti meglio così questo mistero, 
dolce come una musica remota 
che m’accompagni lungo il mio sentiero!… 

Non chiederò di più. Sulla tua gota, 
in una sola lacrima ho sentita 
tutta l’ebbrezza e la dolcezza ignota 

d’un mondo immenso. L’anima smarrita 
sa che sei tu, tu forse il Sogno, quello 
che s’incontra una volta nella vita.

E rinascer potrei come a un novello 
giorno vicino a te, nella perfetta 
gioia di questo sogno unico e bello. 

Ma non posso, non so! Nulla m’aspetta 
oltre la buia strada ove già manca 
l’ultima luce della fede: e ho fretta! 

È così dolce la tua mano bianca, 
son così dolci le tue labbra lievi 
sulla mia fronte tempestosa e stanca! 

Ma mi spinge lontano, oltre i tuoi brevi 
orizzonti, implacabile, un’arsura 
cui non giova la fonte ove tu bevi: 

questa sete d’ignoto, quest’oscura 
forza che mi trascina ove le aggrada, 
ove mai non si giunge, alla ventura. 

Buona qualunque via, purchè si vada! 
Alla mia meta porta ogni cammino: 
ogni strada, sorella, è la mia strada. 

Io non so dove vegeti il giardino 
del mio sogno randagio e ove il mio Dio 
mi chiami e ove m’attenda il mio destino. 

E se quest’inno ch’arde oggi nel mio 
petto sulle mie labbra affiora spento 
nella canzone triste dell’addio, 

è perché son dannato al mio tormento 
che non ha tregua: il cuore vagabondo 
m’incatenò lo spirito del vento. 

E non potrò fermarmi mai… Ma in fondo 
al mio fardello di miseria, accanto 
a tutte l’ire e alle viltà del mondo, 

serbo uno scrigno d’oro al mio rimpianto, 
alla mia fede; e tutto che di buono, 
tutto che dalla vita ebbi di santo 

è lì racchiuso: io vi ripongo il dono 
d’una dolcezza nuova che permane 
oltre il fugace incanto e l’abbandono. 

Amore! Io n’empirò le notti vane, 
io ne profumerò le vie deserte 
delle mie solitudini lontane! 

E nell’ore più stanche, quando incerte 
l’ultime stelle languiran sul mare 
dei miei naufragi, a te l’anima inerte

in sogno approderà, per riposare 
sul tuo tenero cuore, umile e muta, 
per cercare il tuo sguardo, per baciare 

le tue piccole mani, o Sconosciuta.

da Le soste del vagabondo – Zanichelli, Bologna, 1925