
Prima edizione – Milano/Roma – 1953 – Edizioni Avanti
Altre Edizione:
- La parola ad Alberto Cavaliere – Edizioni AVANTI!- Roma 1957
Incontri con gli eroi del tempo nostro
SNOB
Ad ogni guerra, Perduta o vinta,
segue una moda più o meno spinta.
Nel ’19, quando Parigi
sembrava al colmo dei suoi prodigi,
lanciando il tipo della garçonne,
fece insanire tutte le donne.
Che tempi quelli per le ragazze!
Eran di moda le idee più pazze.
La donna, stanca di far la schiava,
a tredici anni si emancipava:
giacca e cravatta, capo scoperto,
capelli corti, quasi all’Umberto;
una borsetta di pelle fina,
con dentro un grammo di cocaina.
Tra maschi e femmine, in apparenza,
nessuna traccia di differenza,
benché restasse sempre integrale
la differenza fondamentale,
che sembra niente, ma che ben tosto
rimise quasi le cose a posto.
La moda, invece, ch’oggi imperversa,
è di natura molto diversa.
Dei suoi seguaci più accreditati,
fra vitaioli spregiudicati
e « gagarelle » più o meno sciocche,
nell’ora sacra del faivoclocche
trovi in Via Monte Napoleone
un campionario che fa impressione.
è, nella vecchia plebea Milano,
il buen retiro del baciamano:
è il profumato tempio dell’ozio,
dove non trovi solo il negozio
o il caffeuccio piatto e volgare,
ma un angoletto crepuscolare,
dove, fra inchini, profumi e vezzi,
son profumati più ancora i prezzi.
Vi ricordate di quel « gagà »
che imperversava tanti anni fa?
Era lo scemo senza un « luigi »,
che sospirava la sua Pavigi;
era il decoro del marciapiedi,
che amoreggiava con una lady;
era l’artista della stoccata,
che redimeva la cicca usata.
il cavaliere dell’erre moscia,
l’eroe mancato della deboscia,
senza speciali complicazioni
oltre alla riga dei pantaloni.
Rinvigorito dopo tre lustri
da una panciata di film illustri,
da ricchi sorsi di whisky and soda
(una bevanda sempre alla moda)
e da una nuova ricchezza-lampo,
il « gagarone » del vecchio stampo
s’è trasformato nel fatalone
che va per Monte Napoleone.
è un esponente del tempo nostro:
no, poverino, niente Cagliostro,
né Casanova, né Don Giovanni;
è un imbecille Sul fior degli anni,
i cui problemi fondamentali
sono i pullovers sensazionali,
il bridge, il tennis, le corse,i cani,
(<< Son cosi pveso tutto domani! »),
e la sua « scatola »: la mille e cento
(<< racchia », ma in fondo non n’è scontento).
Certo, è un ragazzo molto pulito:
« Il bagno è l’uomo », proclama e uscito
di casa, sente d’un fresco effluvio:
egli è un assiduo del pediluvio.
Per l’eleganza non bada a spese:
indossa un abito di stoffa inglese
(stoffa che a Biella fu fabbricata,
è per inglese che l’ha pagata).
In una tasca dei pantaloni
ha una manciata di biglietton
e quando occorre, ligio all’usanza,
li tira fuori con noncuranza,
quasi confuso – vi fa capire –
che non sian dollari, ma appena lire.
Ha il bar in casa, dove agli amici,
tutti più o meno ricchi e felici,
offre un cocktail, con cui sfidate
tutti i veleni di Mitridate.
Dopo ingerito quell’elisire,
comincia l’« orgia »: sarebbe a dire,
s’attacca un disco con un jazz negro
o brasiliano, triste od allegro,
e s’accompagna: du du du du,
sotto una luce violetta o blu.
Quindi, esauriti cinque o sei dischi,
si beve un dito di falso whisky,
s’esclama in coro: «Però, che vita! »,
e si va a letto: l’« orgia » è finita.
Non c’è mai caso che quel baggiano
risponda al mite nome: Gaetano;
sul suo biglietto non c’è mai caso
che porti scritto Rocco o Tommaso:
sta pur sicuro che il signorino
si chiama Bepo, si chiama Pino,
si chiama Gege, si chiama Memo;
innocuo in fondo, ma tanto scemo!
E se davvero veder lo vuoi
« nel quinto cielo dei fasti suoi »,
dove il suo genio più se la fa,
è nelle sale del cinemà
Li favellando delle « riprese »,
sfoggia i sei nomi del proprio inglese
(sei nomi in tutto, ma s’è convinto
che sa l’inglese quasi d’istinto,
e che fa parte di quell’élite
che parla il gergo di Broadway Street).
Trova ch’è buona la « dissolvenza »,
che il film è fatto con diligenza;
osserva pure ch’è indovinata
e originale la « carrellata »,
che per l’effetto dei « primi piani »,
ci sono solo gli amevicani
Spesso a godersi va, in un locale,
dei film esotici l’originale,
senza il doppiaggio, che toglie il pregio,
che sa di trucco, ch’è un sacrilegio:
no, chi ha sentito la voce autentica
di Rita Haywort, non la dimentica!
E in italiano com’è indigesta!
« Fovse è la lingua che non si pvesta ».
Questo, il ritratto del « gagarone »
che va per Monte Napoleone
e al socialismo perdonerà,
purché sia quello di « Savagà »..
è lì che trovi ,spirituale,
fine, moderna, la pia vestale
dell’eleganza, di quel buon gusto
che ormai dilegua da un mondo frusto.
è molto ricca la signorina:
mamma ha venduto tanta farina!
Non bada a spese madamigella:
babbo vendeva la mortadella
ed ha rischiato fin la galera,
quando regnava la borsa nera!
Come si chiama? Carla? Marianna?…
No, ve ne prego, freme, si danna,
se le affibbiate siffatti nomi:
lei non demorde da certi assiomi,
per cui la vita senza l’« i » greca,
che in altre lingue tardo si spreca,
o per lo meno senza l’« e » muta,
non val la pena d’esser vissuta.
Giunta alla soglia dei quindici anni,
perciò si chiama Lilly, Lully,
Anny, Mary, a seconda dei suoi capricci:
se tutto manca, si chiama Cicci.
Le americane: lo so, lo so,
per imitarle fa quel che può.
Compra famose riviste esotiche
e, quando sfoga le smanie erotiche,
dice: « my darling »: c’è più decoro
che in quei nostrani « caro» o « tesoro »,
Carezzerebbe l’idea chimerica
di trasferirsi nel Nord-America:
in base ai film ch’ella ha ammirato,
quello è un paese spregiudicato,
dove la donna sposa, fa il corno,
e poi divorzia, tutto in un giorno.
Se avesse avuto più iniziativa,
avrebbe forse fatto la diva:
qui c’è un ambiente più provinciale,
che, in certo senso, le tarpa l’ale…
Sputa pensieri triti e ritriti
sui vari Freud mal digeriti,
parla di Sartre, di Salacrou
(<< Mi piace un pozzo ». «Non mi va giù »):
non ha mai letto, naturalmente,
neppure un rigo di quella gente.
ma sa che anch’essi, col whisky and soda,
sono dei nomi molto alla moda.
E. nonostante tanta cultura,
quando si sente sola e sicura,
legge i romanzi dell’Invernizio,.
cambiando il nome sul frontespizio.
La troverete nell’ore buone
in quel di Monte Napoleone.
che, nella vecchia plebea Milano,
è il buen retiro del baciamano.
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 22-28
Incontri con gli eroi del tempo antico
I PROMESSI SPOSI
È un maestoso romanzo-fiume
che – son già cento vent’anni buoni
scrisse, non privo d’un certo acume,
il milanese Sandro Manzoni.
La sua sfortuna fu questa sola:
ch’esso divenne libro di scuola,
Ebbe un successo stupefacente:
oggi non restan che pochi brani,
sia per il fatto che ormai la gente
legge soltanto gli americani,
sia perché il frutto d’una morale
che al tempo nostro s’adatta male.
Quanti fastidi, Lucia Mondella,
pur di sposare quel tessitore!
Tutto, vezzosa contadinella,
perché facesti gola a un signore,
che disse a un prete poco esemplare:
« Quel matrimonio non s’ha da fare » .
Sfuggita al bruto che ti voleva,
ti rifugiasti presso una suora,
che, sciagurata, se l’intendeva
coi più famosi gangsters d’allora:
fosti rapita (quanti spaventi!)
da una masnada di malviventi.
Chiusa dapprima dentro un castello,
dopo trionfasti, come si sa,
solo assistita da un fraticello
e dalla fede nell’onestà,
e desti a Renzo saggi consigli,
la pace e, credo, dodici figli.
Se al giorno d’oggi tu fossi il sogno
Od il capriccio d’un don Rodrigo,
oh, non avrebbe, costui, bisogno
d’architettare quel bell’intrigo,
mettendo in mezzo l’Innominato,
che farà ammenda del suo passato.
Ma ti direbbe, semplicemente:
«Ho un palazzotto ch’è un vero amore:
vieni a trovarmi, senza dir niente
né al Tramaglino né al confessore.
Cosa vuoi farne di quel plebeo,
che non può darti l’Alfa Romeo?
Aver gioielli, pellicce vesti,
villa sul lago, cambiar destino…
Lucia Mondella, tu pianteresti
quello spiantato di Tramaglino;
a don Rodrigo diresti: « Si » ,
ed il romanzo morrebbe qui.
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 48-50
Basta coi duci, führer e caudilli
ELOGIO DELL’IGNORANZA
Ho ascoltato un discorsone
che mi ha molto entusiasmato:
Benedetto è liquidato
con l’astrusa erudizione.
E sentendomi giocondo,
spiritoso e intransigente,
lodar voglio apertamente
tutti gli asini del mondo.
Il padrone ci ha avvertiti,
con la solita burbanza,
che l’Italia n’ha abbastanza
di filosofi eruditi :
per l’impero degli stracci
basterà più che ad usura
la dinamica cultura
del guerriero Farinacci.
Getti il libro di latino
il balilla battagliero
e prepari il nuovo impero
con la spada e col frustino!
Viva il duce tutto far
che i filosofi non vuole!
Se abolissimo le scuole,
come usavano gli zar?
Ché se, quando lo s’imbroglia,
l’ignorante non capisce,
non appena s’erudisce,
mangia subito la foglia
e, per legge, a perdifiato
pur gridando contro Croce,
dirà, forse, sottovoce:
– Mussolini m’ha fregato!
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 62-64
IL SILLABARIO FASCISTA
Fin l’innocuo sillabario
il fascismo trasformò,
con un tono autoritario,
truculento anzichenò,
esaltando con impegno
l’armi, il fegato, il furor,
perché il bimbo fosse degno
de1l’impero marciator
e, compiuti i dodici anni,
col fucile nelle mani,
sconfiggesse i rei Britanni,
Franchi, Russi e Americani,
ed i Cafri, i Samoiedi,
gli Ottentotti ed i Niam-Niam
soggiogasse su due piedi:
su, marciam, marciam, marciam!
L’asinello pacifista
fu scalzato, ahimé, nell’a
da un ardito avanguardista
che gridava un alalà.
Nella b, del mite bue
non l’immagine tranquilla:
una bomba, ed anche due,
lancia intrepido un balilla.
Nella c, dove abbaiava
un cagnuolo spelacchiato,
dominarono la clava,
il cannone e il carro armato.
Dove il dado taverniero
Nella d vedevi in luce,
con cipiglio ardito e fiero
troneggiò l’invitto duce,
Dove usava un elefante
sonnecchiar pei fatti suoi,
ritrovavi, ognor marciante,
un esercito d’eroi.
Ed il posto del fanale,
o di un umile fienile,
ben più energico e marziale
prese un fante col fucile.
Non più un gatto il dorso inarca
o si stira di piacere,
ma va in guerra un gran gerarca,
diventato granatiere.
Non più ahi!, non la vigliacca
e volgare esclamazione,
bensì un Hitler, che, nell’acca,
fa del mondo un sol boccone.
Non l’Italia al naturale
più nell’i vedevi in mostra,
ma l’impero più imperiale
che sia stato all’età nostra.
Libro? Ohibò! Nel sillabario,
con terrore delle mamme,
un feroce legionario
maneggiava un lanciafiamme.
Nè una mamma, come ieri,
sorrideva al suo bambino:
mitra, mas e moschettieri
violentavano il destino.
Non il nano, non il nonno
l’enne illustri all’uso antico,
ma una nave guasti il sonno
al britannico nemico!
Battaglieri ad ogni costo
sian l’alunno e l’insegnante!
Così, l’oca cedé il posto
ad un obice tonante.
Non più papere incruente,
non più pane, pepe, Pugli
alla pugna, come niente,
balzò un’ epica pattuglia.
Nella q, nemmen per fallo
un bel quadro o un vil quaderno:
un quadrumviro a cavallo
somigliava a un padreterno.
Non più il querulo schiamazzo
d’una timida ranella;
e, se ancor c’era un ragazzo,
ebbe in man la rivoltella.
Non più il sol ridente e caldo
nell’ azzurro immenso e puro:
un SS irto e spavaldo
con la spada e col siluro.
Nella t del topolino
si smarrì perfin l’idea:
tromba al collo, un fiero alpino
vigilava una trincea:
L’uva? L’uovo? un vago uccello?…
Con in mano un brando enorme,
mostra l’unghie a questo e a quello
un’Italia in uniforme.
La violetta evanescente
spari innanzi a tanta gloria:
un velivolo potente
conquistava la vittoria.
Né si tenne in alcun conto
più la zappa o lo zio Sam,
ma lo zaino sempre pronto:
su, marciam, marciam, marciam!
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 75-79
I tristi tempi della barba finta
SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE
(dopo l’8 settembre)
Mi svegliarono a un tratto, in una mite
notte di fine luglio, ebbra di stelle:
il tonfo sordo del tiranno imbelle
caduto empiva il mondo. Udite, udite!
Stretto è nei ceppi il livido pirata,
delle sventure nostre il sommo artefice,
che d’infamia marchiò come un carnefice
la nostra giovinezza disperata …
Mi sentii come sollevato in cima
ad una nube, attonito, leggero,
gaio, felice, senza alcun pensiero,
come il ragazzo di vent’anni prima.
Uscii con altri sulla via: la folla,
l’abbietta folla che per ventun anno
aveva alzato al lugubre tiranno
urli di fede da ogni oscura zolla
di questa nostra terra, l’abbrutita
folla del « duce! duce! duce! duce! »
or, nel prodigio d’una nuova luce,
risorrideva al sole della vita.
Oh, il sole, il sole in quella mattinata
di luglio, il sole dei vent’anni, il sole
della gloria! Indicibili parole
d’una lingua dolcissima e obliata
risonavan nell’aria in nuovi evviva
di libertà, di fede, di riscossa:
era, l’aurora, una camicia rossa
che alla rinata Italia il cielo offriva.
La gente si strappava a cuor giocondo
il segno dell’infamia, del macello,
della menzogna dal consunto occhiello
e lo schiacciava come insetto immondo…
Non furono che pochi attimi, vissuti
in un sogno sereno e appassionato:
oggi, io son qui nascosto, ricercato
dai giustizieri della « Squadra Muti ».
E nuovamente da ogni oscura zolla
di questo lembo della patria invasa,
e vinta, da ogni strada, da ogni casa
di questa ingrata Lombardia, la folla
applaude quel fantoccio imbalsamato,
quel turpe spettro della giovinezza
fallita, che riprende la cavezza,
tornando dalle brume del passato,
vecchio, ridotto a un cuore che trabocca
d’odio e di fiele, a un teschio che minaccia,
e strappa i figli dalle nostre braccia,
e strappa il pane dalla nostra bocca,
Per darli all’unno, all’anno che protegge
la nuova Italia nata dal letame,
simile a un verme, questa patria infame,
dove il bastone del più forte è legge.
Questa è la patria, Dio? Questo nemico
macabro, questo smidollato mostro,
sangue di Mamaldo e di Cagliostro?
No: se la patria è qui, la maledico!
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 90-93
I REDUCI
Da un fosco megalomane strappati
alle lor case ed alle loro zolle,
gettati in braccio all’avventura folle,
tornano in patria tristi ed umiliati.
Eran partiti un di’, senza esultanza,
verso una guerra inutile: non c’era
in testa ai reggimenti una bandiera
luminosa di fede e di speranza.
Senza canzoni, con oscuri visi,
partirono per steppe e per deserti:
non salutati, dai balconi aperti,
da una pioggia di fiori e di sorrisi,
come, nel sogno d’una luce d’oro,
trent’anni fa, partendo verso il Carso,
i padri ed i fratelli (e ricomparso
sembrava Garibaldi innanzi a loro).
E qui, dove la patria oggi è più nostra,
nelle città ferite e ancor fumanti,
qui, fra le pietre degli altari infranti,
dove il dolore innanzi a Dio si prostra,
come bimbi smarriti, anche se adulti,
tornano alle lor madri dolorose,
con sui volti emaciati le pietose
stimmate del digiuno e degl’insulti;
tornano i vinti nella patria vinta,
dove trovano ancor l’odio in agguato
e, spesso, un egoismo sconfinato,
che non ha fatto che mutar di tinta;
trovano il fuoco spento e la spettrale
fame che attende nelle case in lutto,
trovan campi riarsi e, soprattutto,
una spietata siccità morale:
trovano il regno delle am-lire false,
la tracotanza delle pance sazie,
di chi costrusse sulle altrui disgrazie.
E : – il sacrificio – dicono – a che valse? ..
Se non possiamo accoglierli in letizia,
un buon sorriso almeno li conforti,
e un pane: sono, un poco, i nostri morti
resuscitati. E chiedono giustizia.
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 97-99
Contro il nuovo regime a lancia in resta
BOMBE E DEMOCRAZIA
(Lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti)
Illustre Presidente, un alienista
del vostro prosperissimo Statone
ha fatto un’importante predizione,
che ci diverte e insieme ci rattrista:
egli sostiene, analizzando i frutti
di questa civiltà folle ed isterica,
che i cittadini della grande America
fra duecent’anni saran pazzi tutti.
La vita che di strepiti rimbomba,
la meccanicità paradossale,
causerebbe un disordine mentale
che un giorno scoppierà come una bomba.
Le officine frenetiche e rombanti
son manicomi spaventosi, inferni
senza pietà: Charlot (Tempi moderni)
punzonava il sedere dei passanti,
invasato dal ritmo e dal fracasso
di quel lavoro in serie: un mulinello…
Voi punzonate agli uomini il cervello,
effetto del medesimo collasso!
Fra duecent’anni… In questa millenaria
Europa, a cui guardate con disprezzo;
osserverete voi che già da un pezzo
la camicia di forza è necessaria.
Ebbene, degno in questo di un encomio,
io non rubo il mestiere alla Sibilla,
ma credo che col Patto che v’assilla
andrete molto prima al manicomio.
Esattamente, alludo al Patto Atlantico,
col quale, nella vostra fantasia,
voi salverete la democrazia,
questo abusato termine romantico.
Se la pretesa può sembrar ridicola,
è invece grave: voi sognate, in fondo,
di far la pelle a questo vecchio mondo,
non di far solo più qualche… pellicola.
Fra duecent’anni? Ohimé, con quel binomio
«bombe e democrazia »?… Quell’alienista
mi sembra veramente un po’ ottimista…
Amico, ci vedremo al manicomio!
da La parola ad Alberto Cavaliere – Milano-Roma – 1953 – Edizioni Avanti – pag 118-119