Prima Edizione – S.A.I.G. – Roma – 1936

Altre Edizioni:

  • Alberto, il Cavaliere che ritmò la Giostra – Città di Arezzo La Giostra del Saraceno – di Alessandro Bindi e Alessandro Boncompagni (Ristampa commentata del testo “La Giostra del Saraceno”) – ARte’s, Arezzo, 2017


[In cui narrasi  come il sultano dei Mori, volendo 
trar vendetta dei Cristiani, commettesse a Balugàn 
dei Bagoloni l’incarico di costruire una diabolica 
macchina e come Balugàn accettasse per tema di 
perder ambo le mani, a cui molto affezionato egli 
era.] 

Venuto a morte il Cid, anima rozza, 
ma il più gagliardo tra i gagliardi cuori, 
che ben più d’una testa aveva mozza 
tra le file degli Arabi invasori, 
grande fu lo sgomento in Saragozza, 
cinta d’assedio dai feroci Mori ; 
ma i suoi seguaci, pur fra lo sconforto, 
seppero il Cid utilizzar da morto. 

Il suo corsiero, a cui fu il corpo inerte 
legato nella splendida armatura, 
destando l’eco per le vie deserte, 
fu lanciato al galoppo oltre le mura: 
a quella vista, fra le schiere incerte 
degl’Infedeli, tal fu la paura 
che si diedero tutti allo sbaraglio, 
lasciando sul terreno armi e bagaglio. 

Quando un messo, tremante, al disumano 
signor dei Mori, riportò la gesta, 
venne in tale furor l’empio soldano 
che al tristo narrator tagliò la testa. 
Curvi ai suoi piedi, i suoi ministri invano 
ne volevan placar l’ira funesta, 
cercando il modo più spedito e saggio 
per vendicar il sanguinoso oltraggio. 

Li insulta il sire, nè placar si lascia: 
ladri li chiama e ignobili cialtroni; 
fin quando, per sottrarlo a tanta ambascia, 
non venne in mente a quei ministri proni 
che c’era fra gli schiavi un mastro d’ascia, 
chiamato Balugàn dei Bagoloni, 
un milanese a cui natura diede 
il genio di Vulcano e d’Archìmede.

Gran negromante e astuto ciurmatore 
era costui, nonché sommo meccanico,
che fra l’altro inventò lo spruzzatore, 
la fibbia ed il coltello a serramanico. 
Commise a lui l’incarco il rio signore 
di suscitar fra gl’inimici il panico, 
sì che, senza più voce nella strozza, 
tornassero raminghi in Saragozza.

Gli offriva in cambio, il perfido soldano 
la libertà, dicendogli:« Combina, 
qualche apparecchio e rivedrai Milano: 
pensa, la Galleria, la Madonnina!… 
Se non accetti, perderai la mano 
tanto la destra quanto la mancina.» 

Balugàn, uomo saggio e mente aperta, 
optò senz’altro per la prima offerta. 

E Balugàn rispose senza impaccio: 
«Datemi appena un mese, o mio signore, 
ed al vostro servigio avrete un braccio 
quale nessun mai vide, avrete un cuore 
di ferro, un’asta da ridurre a straccio 
fra gl’inimici il cavalier migliore, 
e in grado di schiacciare in un baleno 
diecimila Cristiani ed anche meno».

L’artefice genial seppe a puntino 
tener fede, difatti, al proprio impegno, 
presentando al soldano, un bel mattino. 
uno strano e malefico congegno: 
era il più orrendo ceffo saracino 
che si fosse mai visto in tutto il regno, 
un ceffo tal da incutere il rispetto 
anche al più baldo e generoso petto. 

Avea costui lo sguardo truce e immoto, 
tumido il labro, la ganascia informe; 
fiso nell’ansia d’un destino ignoto, 
nella mano terribile e difforme, 
quasi protesa a schiaffeggiar il vuoto 
reggeva il peso d’una lancia enorme: 
mai l’Infedele armato avea di ferro 
un più feroce e spaventoso sgherro. 

Della cupa Vendetta era l’emblema 
minaccioso: incapace di perdono, 
altrettanto incapace era di tema; 
né  muto egli era, poi, che un rauco suono, 
per virtù d’ingranaggi, una biastema 
gli uscia di bocca, in cosiffatto tono 
che bastava da sola – immaginate! – 
a drizzare i capelli anche ad un frate. 

Con tutto questo, il turgido tiranno 
quel fantoccio trovò senza alcun succo. 
Sorrise Balugàn: «Qui c’è l’inganno: 
mettilo all’opra e resterai di stucco. 
I Cristiani che a lui s’accosteranno, 
senza per altro sospettare il trucco, 
cadranno al suolo inesorabilmente, 
quasi li fulminasse la corrente».

A guardarla parea non solo tarda, 
ma inanimata la fatal figura; 
e invece, appena un’asta o un’alabarda 
scalfir voleano la sua pelle scura, 

con una mossa rapida e gagliarda, 
sì che pareva un lampo addirittura, 
girava a se d’intorno all’improvviso, 
l’assalitor colpendo in pieno viso. 

Volle abbracciar l’artefice provetto 
l’empio signore, che apparia commosso; 
rise per circa un’ora a più non posso, 
già pregustando il prodigioso effetto 
che avrebbe avuto il magico colosso 
sui fedeli di Cristo; e con trasporto: 
«Peccato – esclamò poi – che il Cid è morto!».

Indi si volse a Balugàn, dicendo: 
«Dell’opra tua mi lodo e mi compiaccio, 
ragion per cui la libertà ti rendo, 
come promisi, e cavalier ti faccio; 
ma pria in Iberia che tu spieghi intendo 
come funzioni questo catenaccio. 
Naturalmente, astuto Balugàn, 
due dei miei sgherri ti accompagneran».

 da La Giostra del Saracino – S.A.I.G., Roma, 1936



[ Del come tre chiari, cavalieri aretini movessero 
contro il fiero Saracino per abbatterne l’orgoglio 
e di quello che ne segui.] 

Chiari in Arezzo per antica fama, 
primeggiano in quei dì tre cavalieri, 
esperti in maneggiar l’asta e la lama, 
e in ugual modo ardenti e battaglieri ; 
ed Ocio degli Ochetti uno si chiama, 
nel suo possente cuor, nei suoi pensieri 
– se pur cenno di lui non fa la storia ­ 
solo agitato da furor di gloria. 

E l’altro è Perticone dei Tentenna, 
gran paladino ed anima gagliarda, 
che s’alza dritto al ciel come un’antenna, 
per cui dall’alto in basso il mondo guarda; 

sol di Torquato la divina penna 
pinger potrebbe quel guerrier, cui tarda 
di misurarsi in qualche insigne giostra 
e delle sue virtù far degna mostra. 

Ed ecco il terzo, il baldo Ritirato 
dei Ritirati, dalla fronte altera, 
si truce in vista che una volta, armato, 
nel rimirarsi innanzi a una specchiera, 
fu così vinto, fu così turbato 
dalla sua stessa immagine guerriera, 
da quella grinta truculenta e ardita, 
che usci di casa urlando: « Aita! Aita! ». 

Presaga e Certa delle sue fortune, 
a questi Arezzo affida – e in lieto coro 
la gente applaude, da ogni dubbio immune ­ 
l’incarco di fiaccar l’orgoglio moro. 
Seguiti dagli araldi del Comune, 
escono i tre campioni e dietro loro, 
sulle cui spalle tanto rischio incombe, 
va il popol tutto fra un clangor di trombe. 

Giunti alla riva dove il Saracino 
fiero troneggia e orribile in sembianti, 
sosta indeciso il popolo aretino 
coi tre crociati cavalieri erranti. 
Ma il baldo Perticon sul suo ronzino, 
insiem con Ocio, si fe’ tosto avanti 
e alteramente: « Orsù, la lingua sciogli 
e ci disvela chi tu sei! » gridogli. 

Sciolse la lingua il Saracino e a un tratto 
il suo motto lanciò, turpe e infernale. 
Scolorendosi in viso: « Egli è Buratto, 
re dell’India, – Ocio disse; – io l’ho per tale! » 
« Io pure! » pensieroso, esterrefatto, 
aggiunse Perticon, lungo e spettrale, 
laddove il baldanzoso Ritirato 
nulla obbiettò, poich’era senza fiato. 

Propriamente a costui spettò per sorte 
di dar per primo all’infedel l’assalto, 
e il fiero paladin, con mosse accorte, 
la lancia in resta e l’ampia fronte in alto, 
d’un subito partì, spronando forte, 
si che il destrier, con prodigioso salto, 
quel cavaliere a tali corse avvezzo 
in men d’un’ora riportò in Arezzo. 

Ma Perticone, pronto al gran cimento, 
volle metter Buratto in isbaraglio: 

si lanciò innanzi con le chiome al vento 
e l’asta tesa, ma fallì il bersaglio,
poi che fu tal l’ardor che in quel momento 
perdette i lumi e per fatale sbaglio 
non vide il Moro e invece del nemico 
colpiva una villana, ove non dico. 

Mentre la miserella al ciel levava 
dolenti grida, fu la volta d’Ocio; 
stigmatizzando la condotta ignava 
ch’avean tenuta e l’uno e l’altro socio, 
(del suo successo ormai niun dubitava, 
ch’ei d’astuzia e coraggio era un incrocio) 
ei si lanciò con mai veduto ardire 
contro il rubello e minaccioso sire. 

 da La Giostra del Saracino –  1936 – S.A.I.G. Roma