Prima Edizione – Bietti Editore – Milano – 1968



ROBINSON CRUSOÈ

Viveva a Londra, stava benino, 
ma aveva l’estro del vagabondo; 
e s’imbarcava su un brigantino, 
che per disgrazia colava a fondo. 
Riuscì a salvarsi, partì di nuovo, 
ma d’un pirata finì nel covo. 

Da lì fuggito, sbarcò in Brasile, 
dove a bizzeffe l’oro ammassava; 
ma aveva un sogno ben più virile: 
l’Africa nera lo affascinava. 
Ed intraprese quel grande viaggio, 
accompagnato da un equipaggio. 

Naufragò ancora (ma che disdetta!) 
e i suoi compagni periron tutti; 
lo sciagurato su un’isoletta 
fu sballottato da immani flutti. 
Robinson disse – Ma, Crusoè, 
il cielo tutte le manda a te! – 

Lì, se abbondava la selvaggina, 
d’esseri umani nessuna traccia; 
e avendo seco la carabina, 
per ventott’anni visse di caccia. 
Finché un moretto trovò un bel dì, 
cui diede il nome di Venerdì. 

Nella sua tenda non fu più solo. 
E, finalmente, dal suo ritiro
scorge una nave, che al patrio suolo 
lo riconduce. Fu un bel respiro, 
mentre oggi (e a dirlo me ne vergogno) 
quell’isoletta sarebbe un sogno. 

Dolce, solinga, mite dimora… 
Felice, il mondo, chi può lasciarlo! 
Senza pur dire che, s’egli allora 
lungi dal mondo potè trovarlo, 
oggi, nel pazzo mondo di qui, 
manchiamo tutti d’un… venerdì!

da E vennero i Beat – Bietti Editore – Milano – 1968 – pag 23-24



LO SCUDIERO INNAMORATO

Il visconte Rinaldo era, in più fieri 
tempi, un potente e ricco signorotto, 
in gamba ancora, pur se già anzianotto, 
e al suo comando cento e più scudieri 
contava, tra cui Lando era il più ghiotto. 

Viveva nel castello monna Berta, 
sua leggiadra metà da appena un anno: 
un anno appena e già lui stava all’erta, 
dal giorno in cui l’avevano scoperta 
fra le braccia di un ospite normanno.

La teneva da allora prigioniera 
nell’alta torre, il burbero Rinaldo, 
ma assai l’amava e, appassionato e caldo, 
era geloso pur di quella schiera 
di servi, di cui Lando era il più baldo. 

Dodici ancelle, fino a notte oscura, 
restavano a vegliarla, e nessun uomo,
sotto pena di morte o di tortura, 
poteva penetrar fra quelle mura, 
salvo l’innocuo vecchio maggiordomo. 

Era Lando, per lei, pazzo d’amore, 
pronto a sfidare la più dura pena, 
anche la morte, per un bacio appena 
di quelle ardenti labbra: era, il suo cuore, 
bruciato come un’ala di falena. 

« L’avrò, l’avrò, lo giuro ». Egli sapeva 
(e il petto gli s’empiva di speranze) 
che il castellano, quando non cedeva 
ai rari appelli delle grazie d’Eva, 
dormiva sempre nelle proprie stanze. 

Ed una notte il fiero garzoncello 
osò, dicendo: «Vivere non giova 
senza di lei, per lei morire è bello ». 
E, salito sul tetto del castello, 
entrò furtivo nella calda alcova. 

Di nulla sospettò la donna amata, 
per quanto grande fosse il suo stupore 
sentendo, quella notte, il suo signore, 
acceso da una febbre inusitata, 
con tanta forza stringerla al suo cuore. 

Poi tornò svelto, il giovane scudiero, 
caldo di baci, nella camerata 
dove dormiva tutta la brigata, 
lasciando in braccio a un sogno di mistero 
la bella castellana addormentata. 

Gli piacque il gioco e a lei fece ritorno 
per molte notti e mai sbagliò indirizzo. 
Ella, talvolta, gli lanciava un frizzo: 
« Mio potente signor, di giorno in giorno, 
voi diventate sempre più rubizzo … »

Ma in una fosca notte, ecco, succede 
che dall’alcova è appena uscito Lando 
ch’entra il visconte. Allora, ella gli chiede: 
« Signor mio, qui di nuovo? … » Egli intravede 
la verità; sveglia le ancelle, urlando; 

si precipita giù come una furia… 
Il maggiordomo, tremebondo, accorre… 
« Voglio saper chi il piede ha osato porre 
nella sua stanza: il reo di tanta ingiuria 
sarà impiccato a un merlo della torre ». 

Tosto s’allontanò l’astuto e vecchio 
servo; nel buio, senza far rumore, 
entrò nel dormitorio e, inquisitore, 
sul petto di ciascun pose l’orecchio 
per ascoltarne i battiti del cuore.

Udì che il cuor d’un giovane garzone 
batteva forte, forte più d’ogni altro; 
gli tagliò allora, senza esitazione, 
un ciuffo di capelli e dal padrone 
ritornò, dopo, il maggiordomo scaltro. 

Gli disse: «Signoria, saprete il nome 
di quell’empio, non datevi pensiero; 
domani all’alba, il perfido scudiero 
che porti un segno di mancanti chiome 
sarà impiccato a un merlo del maniero »’, 

Capì che i suoi minuti eran contati, 
Lando, e s’alzò, deciso e circospetto; 
percorse il dormitorio in tutti i lati 
e, a tutti i suoi compagni addormentati 
tagliato il ciuffo, si rimise a letto. 

All’indomani, cupo e truculento, 
i suoi scudieri radunò il visconte; 
ma nel vederli, in preda allo sgomento, 
balbettò solo: «Sono stati in cento! » … 
E desolato si grattò la fronte. 

da E vennero i Beat – Bietti Editore – Milano – 1968 – pag 60-63



CONCORRENZA SLEALE

Nell’Alta Marna alcuni ignoti hanno svaligiato un treno postale, lasciandovi un biglietto in cui dichiaravano che erano persone oneste, spinte alla rapina dal bisogno.

Con tutte le rapine e i rapimenti 
che infiorano la cronaca a dovizia, 
non farebbe più effetto la notizia 
che alcuni temerari malviventi, 
con bombe a mano e mitra di contorno, 
hanno assalito un treno in pieno giorno. 

E al fatto, che ci ha scossi e ci ha stupiti, 
non avremmo accennato, oggi, nemmeno, 
se ad assalire e a svaligiar quel treno 
fossero stati i soliti banditi: 
è che purtroppo a compiere la gesta 
è stata invece della gente onesta. 

Gente perbene, che lasciò un biglietto 
pel direttore della polizia, 
vergato là per là, senza ironia, 
anzi, improntato al massimo rispetto, 
dichiarando turbata, anzi, sconvolta, 
che rapinava per la prima volta; 

e ch’era onesta, e che il bisogno ingrato 
l’aveva spinta a consumar l’impresa, 
poiché trovare i soldi per la spesa 
oggi è un problema tanto complicato: 
sicché molto spiacente e assai confusa, 
concludeva così, chiedendo scusa… 

No, no, signori miei! Per questa via 
noi torneremo ancor nelle foreste, 
dove, persone oneste e disoneste, 
ci sbraneremo senza ipocrisia. 
Ridiamo al mondo la vernice d’oro 
dell’onestà, del senno e del decoro! 

Come in tempi più miti e più sereni, 
ci siano pure i ladri: è necessario, 
dato che il mondo è bello perch’è vario; 
ma siano loro a svaligiare i treni, 
nè debban dire: «Ci mancava questa: 
la concorrenza della gente onesta… » 

da E vennero i Beat – Bietti Editore – Milano – 1968 – pag 102-103



COMIZI «BEAT»

Mentre la folla traffica e s’affanna, 
accalappiata dal «sistema» infame, 
sfilano i beat: un pittoresco sciame, 
che quel sistema giudica e condanna. 

Strani « barboni », ancor di primo pelo, 
nanchè « barbine » in abito maschile, 
sfilano in lunghe ed incomposte file, 
gridando contro un mondo senza cielo, 

quel mondo contro il quale si ribella 
la nuova gioventù, più di un’accusa 
lanciando contro noi: contro i « matusa », 
come ci chiama il beat in sua favella. 

Noi possiamo ignorarli, o, un po’ seccati, 
dare a ognuno di lor del vagabondo, 
ma loro posson dirci: «Questo mondo, 
a ridurlo così, voi siete stati». 

Possiamo loro consigliare un sarto 
o un parrucchiere, in tono d’ironia; 
loro possono direi, tuttavia: 
«Siete voi stati ad inventar l’infarto; 

l’ansia, l’angoscia, il culto del lavoro, 
voi foste ad inventarli: è questo culto 
che vi divora come un male occulto, 
senza rimedio», posson dirci loro. 

Noi gli possiamo dar dei perdigiorno, 
possiamo pure con solenne foga 
rimproverargli l’uso della droga, 
ma loro posson dirci, a nostro scorno: 

«Non è il mondo di Dio, questo, che inquina 
l’acqua dei fiumi, e l’anima, e il pensiero; 
ed un mondo più giusto, il mondo vero, 
per questo lo chiediamo all’eroina ». 

E sarà sempre un mondo senza cielo, 
questo che noi gli demmo e non gli garba, 
fin quando tra i capelli o nella barba 
non scopriranno il primo bianco pelo: 

e allora, dopo un ultimo comizio, 
s’accoderanno al mondo dei « matusa » 
e nell’empio sistema, in patria o in USA, 
entreran dalla porta di servizio.

da E vennero i Beat – Bietti Editore – Milano – 1968 – pag 155-156



TRAMONTO DEI BEAT

Peccato! Dall’idea d’una rivolta 
d’una protesta viva ed animata 
contro una società putrida e stolta, 
contro una civiltà sconclusionata 

contro la vanità d’un ideale 
basato sulla fiaba del progresso, 
contro l’ipocrisia sacerdotale 
sui misteri dell’anima e del sesso

contro la falsità che ci governa 
e ad un dovere inutile c’inchioda,
questa rivoluzione antimoderna 
è diventata un abito, una moda:

priva di forza e d’impeto plebeo, 
non più sorretta da virtù spontanee, 
sta per finir, purtroppo, nel museo 
delle curiosità contemporanee.

da E vennero i Beat – Bietti Editore – Milano – 1968 – pag 176