Prima EdizionePinetti Editore, Milano, 1950

Altre Edizioni:

  • Da Cesare a Churchill (Storia d’Inghilterra) Adiemme, Milano 1965.


L’ARRIVO DI CESARE 

Mentre Cesare in Gallia si guadagna
o sottomette le tribù ribelli
con una memorabile, campagna,
ai Belgi e ad altri popoli fratelli
mandano aiuti i Celti di Bretagna,
provocando in tal modo il casus belli,
poichè Roma non tollera, indignata,
che la neutralità venga violata. 

Dare ai Celti un castigo e metter piede
su quelle terre nordiche: lontano
 favoleggiato mondo, ove si crede.
vi sian perle e tesori a tutto spiano …
Non ci ripensa su, tempo non chiede,
chè non sa indugi il condottier romano;
con due legioni di soldati scelti,
si mette in mare e muove contro i Celti. 

L’estate andava ormai verso la fine
e le giornate diventavan corte;
le maree dell’autunno eran vicine,
il «generale» Nebbia era alle porte;
se ancor non esistevano le mine,
la borea c’era, che soffiava forte;
ma, nonostante il vento e le maree,
giungono a Dover cento e più galee. 

Il popolo dei Celti aveva avuto
da tempo già sentore dell’impresa
e, offerto invano a Cesare un tributo,
s’accinge disperato alla difesa.
Qualche mercante gallico, avveduto,
consiglia ai capi subito la resa,
ma, sospettato d’essere al comando
della quinta colonna, è messo al bando. 

Scendono a riva i Celti battaglieri
con quattromila e cinquecento traini.
I Romani, benché senza genieri
e ingombrati dall’armi e dagli zaini,
raggiungono (protetti dagli arcieri
delle gale e) la costa. E, come daini,
i Celti se la filano: scomparsi! I
(Non è ancor nato il termine «sganciarsi»).

Cesare avanza. I traini dei nemici
si sottraggon veloci alla battaglia,
nei pochi borghi grami ed infelici
bruciando le casupole di paglia.
I Romani si nutron di radici,
mancan di alloggi, il freddo li attanaglia.
E dov’é l’oro in quell’ingrata terra?
(Non c’era ancor la Banca d’Inghilterra…)

Cesare ai capi, allor, mandò messaggi,
con cui la pace a buon mercato offriva;
si recò poi nell’est e in quei paraggi
minutamente ispezionò la riva;
indi, in Gallia tornò con doni e ostaggi
da quella spedizione informativa,
fra sé, però, dicendo a quei signori:
«Ci rivedremo alla stagion dei fiori…».

Tornò con un’armata assai più grossa,
sei mesi dopo, di Romani e Galli,
mostrando, senza gru, come si possa
sbarcar con catapulte, armi e cavalli,
mentre le tribù celte alla riscossa
discendono dai borghi e dalle valli,
e, rinunciando ad ogni interna bega,
dànno il comando a un unico stratega. 

da Da Cesare a Churchill – Pinetti Editore, Milano, 1950



FINE DELL’INGHILTERRA ROMANA 

Già fin dal terzo secolo, il flagello
d’una crisi economica e sociale,
che al grande impero scaverà l’avello,
imperversa sul mondo: è naturale,
il mondo, dopo tutto, è sempre quello,
e la famosa crisi universale,
per la qual così vivo oggi è il lamento,
non l’ha inventata il nostro Novecento. 

Ma la Bretagna è un’isola: essa vive
dei suoi commerci; i Barbari predoni
non possono approdar su quelle rive,
per cui la pace regna, e le legioni
rimangon per due secoli inattive,
i soldati diventano coloni
ed emulan gl’indigeni, entusiasti
(se non dei cinque ancor) dei quattro pasti. 

Dalla lontana Partica alla Spagna,
sorge dovunque qualche usurpatore;
persino le legioni di Bretagna,
che motivi non han di malumore,
perché più grande ancor sia la cuccagna,
han proclamato un loro imperatore:
il generale Massimo, che intende
marciar su Roma e lì piantar le tende. 

Bravo stratega, ardito e intraprendente,
lascia poche coorti lungo il Vallo,
parte e sconfigge clamorosamente
l’imperator Graziano in suolo gallo;
ma lo doma, accorrendo da Orïente,
l’imperator Teodosio e a quel vassallo
ribelle e usurpator taglia la testa,
 dov’era nata quell’idea funesta. 

Grande è il massacro: non una legione,
non un soldato dall’impresa insana
torna in Bretagna; e quando Stilicone,
ultimo eroe di Roma, in sovrumana
difesa contro i Vandali s’oppone
e chiede aiuti all’isola romana,
dalle remote abbandonate sponde
neppur l’eco, ahimé, più gli risponde!

I Pitti, che il fattacio hanno saputo,
pù non temendo chi li fermi e sgomini,
varcano il Vallo; un capo inavveduto
(siamo nell’anno quattrocento Domini)
fa venir gli Angli e i Sassoni in aiuto
dal continente: fior di galantuomini,
trovan costoro il luogo molto bello
e contro gli assuntori apron macello. 

Dando l’esempio ai tardi pronipoti,
che un dì predando correranno i mari,
devastan tutto, come fanno i Goti,
brucian città, villaggi e casolari;
traggon le donne schiave, e i sacerdoti
son trucidati innanzi ai loro altari:
pochi fuggiaschi scampan nell’Irlanda,
che ancora all’invasor moccoli manda. 

Più tardi, il santo vescovo Germano
chiama a raccolta i «figli di Gesù»,
sconfiggendo gl’intrusi; anche un sovrano
celta, nel sesto secolo, re Artù,
dà loro alcune nespole, ma invano:
Sassoni ed Angli non andran via più.
Poi, di sloggiarli spererà qualcuno…
nel millenovecentoquarantuno.

da Da Cesare a Churchill – Pinetti Editore, Milano, 1950



LA GUERRA DEI CENTO ANNI
LA PESTE NERA 

La situazione, qui, si compromette:
il re, che fin dal tempo dei Normanni
ha feudi in Francia, in testa ora si mette
che la Francia obbedir debba ai Britanni.
E nel milletrecentotrentasette
scoppiò una guerra che durò cent’anni
(epoche, quelle, di ben altro stampo,
in cui non c’era ancor la… guerra-lampo).

Dal canto suo, Filippo, il re di Francia,
vuole le Fiandre, ma l’industria inglese
su quel mercato i suoi prodotti lancia,
specie la lana: l’oro del paese.
I mercanti, che già metton su pancia,
chiedon la guerra, non badando a spese,
e i deputati, unanimi e contenti,
batton le mani e votan gli armamenti. 

Dai propri agenti apprendono gl’Inglesi,
prima di scatenar quel guazzabuglio,
che i porti in Normandia sono indifesi
e che la Francia, al solito, è in subbuglio.
Con cavalieri e arcieri anglo-gallesi
il re sbarca a La Hougue, il dieci luglio,
invade la provincia e, ovunque passa,
feroce apre macello e fa man bassa. 

L’Inghilterra è più ricca e meglio armata:
oltre agli arcieri, ad un buon corpo equestre
e ad una flotta ben equipaggiata,
ha molti lanciatori di balestre:
quest’arma dal pontefice è vietata,
pel fatto che, affidata a mani destre,
ammazza un uomo inesorabilmente…
da cento metri, come fosse niente!

Tempi modesti ancora, amici miei,
e dal progresso ancor molto lontani:
adesso i civilissimi europei
s’ammazzan con le bombe e gli aeroplani.
E questo è niente: tali ordigni rei,
che già sembravan tanto disumani,
son diventati una robetta comica,
 paragonati con la bomba atomica!

Gl’Inglesi, entusiasmati, vanno avanti,
ma la guerriglia è dura e si trascina.
A Londra, coi profitti esorbitanti,
mentre la gente in Francia va in rovina,
s’impinguan gli armaioli ed i mercanti,
 inneggiando alla guerra e alla sterlina.
Ma nel frattempo, nell’Europa intera,
scoppia il flagello della peste nera. 

Erano tempi poco progrediti,
l’igiene ancor ignota era ai mortali:
per le vie di Parigi e della City
– pensate un po’! – giravano i maiali
(girano ovunque ancor, ma più puliti,
in guanti gialli e lucidi stivali…).
Il contagio divampa: in Inghilterra,
mezzo paese in breve è sottoterra. 

Privo di braccia il suolo, indi, rimane
e le lor terre vendono i baroni,
che si dànno al commercio delle lane,
visto che sovrabbondano i montoni.
Servono sbocchi in terre più lontane;
perciò, dei mari occorre esser padroni:
ecco, così, se ancor non lo sapeste,
come un impero nasce da una peste! 

da Da Cesare a Churchill – Pinetti Editore, Milano, 1950



LA PRIMA GUERRA MONDIALE 

Londra, coi suoi dominii colossali
dal Nilo al Capo, dall’Irlanda al Gange,
adocchia due repubbliche rurali
sud-africane: Transvaal e Orange.
Dei coloni olandesi assai frugali,
che presto il mondo unanime compiange,
su quel suolo fecondo e benedetto
vivono in pace e senza alcun sospetto. 

Ma si scoprono un giorno, in quella terra,
dei giacimenti d’oro e di diamanti:
immaginate un po’ se l’Inghilterra
ci avrebbe ripensato a farsi avanti!
Senza nessun perché, porta la guerra
 a quei tranquilli e indomiti abitanti,
che, solo armati di fucili e falci,
al potente aggressor dànno dei calci. 

Il conflitto lunghissimo e cruento
copre Londra d’infamia e di ridicolo;
ed essa nel superbo isolamento
in cui si trova ormai, fiuta un pericolo:
assalita in Europa, in quel momento,
si sarebbe trovata in mezzo a un vicolo!
Bisognava trovar sul continente
un’alleanza solida e potente. 

Era un periodo critico: in Germania
regnava incontrastato Guglielmone,
che Londra insospettì con quella smania
che aveva lui di farla da padrone,
e che sembrava in cerca di zizzania
per far precipitar la situazione
e per far dir: «Guardate il gran Guglielmo
come sta bene con la spada e l’elmo!». 

Dinanzi alla compagine tedesca,
con quel campione in vena di prodigi
e di natura isterica e manesca,
s’accordaron fra lor Londra e Parigi,
e con cordialità cameratesca
appianaron gli atavici litigi.
Anche la Russia entrò nella partita:
 si capì che la pace era finita. 

Tanto tuonò che piovve. Il Novecento,
ch’era sembrato un secolo idilliaco,
pieno di civiltà, di sentimento,
uscì di senno. Un arciduca austriaco
è ucciso a Seraievo: ecco il momento
atteso da Guglielmo. Il gran maniaco
ritiene che sia giunta l’occasione
per papparsi l’Europa in un boccone. 

L’Inghilterra mobilita l’impero;
la Francia trova i giorni suoi migliori;
 scende in campo l’Italia (e, non par vero,
vince gli Austriaci, senza dittatori);
1’America, il Giappone, il mondo intero
si schiera in armi contro gli aggressori.
Ma il popolo di Russia furibondo,
contro lo Zar insorge: è il finimondo! 

Lenin (chi dice: «è un’anima profetica»,
chi invece afferma : «è un pazzo»), uomo d’azione,
proclama la repubblica sovietica.
e domanda la pace a Guglielmone;
ma questi, infine, dopo una frenetica
lotta che a nulla val, l’armi depone:
perde la guerra sì, ma son dolori
per i neutrali, i vinti e i vincitori.

da Da Cesare a Churchill – Pinetti Editore, Milano, 1950



LA SECONDA GUERRA MONDIALE 

Londra cercava d’evitar la guerra:
il mite Chamberlain in aeroplano
due volte si partì dall’Inghilterra
con l’ombrellone e con il cuore in mano;
fece del tutto per salvar la terra,
 placando il fiero tèutone, ma invano;
non gli giovò né il cuore né l’ombrello:
il tèutone rapace aprì macello. 

Occupata già l’Austria ed i Sudeti
e la Boemia ancor, faccia di cuoio,
per strangolar l’Europa ed i Soviéti
già pronto avendo il «canapo scorsoio»,
su Danzica girò gli occhi irrequieti,
senza pensar che in fondo al Corridoio
(l’ultima zona – disse – reclamata)
c’è il caso di trovar la… ritirata.

Chiede la guerra, ormai non c’è più scampo:
non è un più un uomo, è un demone furente.
E dà principio a quella guerra-lampo
che durerà sei anni esattamente,
durante cui nequizie d’ogni stampo
deturperanno il vecchio continente,
con i saccheggi, i forni crematorii,
deportazioni in massa ad accessorii. 

Lo scellerato ha in pugno la vittoria,
riduce mezza Europa ad uno straccio.
A quella sanguinosa orgia di gloria,
Benito Mussolini: «Ed io, che faccio?»
si chiede fieramente e, dalla Storia
preso alla gola, alfin tenta il colpaccio;
rompe ogni indugio ed entra anch’egli in lizza,
mentre la Francia rantola e agonizza. 

Ma Londra è lungi dall’alzar le braccia,
invan terrorizzata dagli «Stuka».
Winston Churchill la guida: è una pellaccia,
che ,di primo ministro ha la feluca.
Non ci son bombe, ohibò, non c’è minaccia,
non c’è consiglio che a piegar lo induca.
E Hitler, dalla grinta ognor più fosca,
si volge ad est e punta verso Mosca.

Scende in campo l’America, attaccata
a tradimento dall’incauto Tenno,
la favolosa America, guidata
da un uomo che ha del fegato e del senno.
Per quanto ancor del tutto impreparata,
essa balza di scatto ad un suo cenno:
alla potenza umana ed economica
ben presto aggiungerà la bomba atomica…

Il resto è noto: il «führer» si suicida,
il giallo imperator si sente male,
il «duce» è ucciso e appeso, fra le grida
del popolo in rivolta, in un piazzale.
Ma, quel ch’è peggio, l’insensata sfida
pagò purtroppo il povero Stivale,
da una furia crudele e mentecatta
ridotto quasi a un’umile ciabatta. 

E Churchill? Dittatore incontrastato
durante i foschi e leggendari eventi,
se ne va via da semplice privato,
dopo la guerra, senza monumenti.
Perché gli Inglesi in questo han dimostrato
d’essere sempre savi e intransigenti:
un idolo per essi è fra i più cari:
la libertà, signori. E il mondo impari! 

da Da Cesare a Churchill – Pinetti Editore, Milano, 1950