
Prima edizione – Sonzogno, Milano, 1946
– Referensario alla Corte dei Conti: una magnifica carriera.
Paolo non aveva osato contraddire l’onesto genitore circa la magnificenza di quella carriera, ma si accingeva all’impresa senza nessun entusiasmo. Si ricordava di certi suoi versi:
Impiegatuccio pallido, che sai,
lontano un miglio, di mancati pranzi,
con il didietro logoro e dinanzi
il ventisette che non giunge mai…
Ed ecco che ora anche lui si accingeva a diventare uno di quegli impiegatucci. Ma non era questo il solo motivo per cui era venuto a Roma di malavoglia: a parte una istintiva antipatia verso la Corte dei Conti, i vice-segretari e perfino i referendari di quell’importante organismo, egli nutriva un sordo rancore verso quella stessa città, dove aveva visto naufragare le più belle illusioni della sua prima giovinezza. C’era, poi, nella Roma di quel tempo, qualcosa di artificioso che urtava la sua sensibilità di artista. Le parate lo infastidivano; lo infastidiva tutta quella piccola gente accorsa dalla provincia per installarsi negli uffici governativi, felice e orgogliosa di vivere nella capitale, dove andava a letto alle dieci di sera; lo infastidiva, soprattutto, un che di tronfio e di pretenzioso che caratterizzava certi aspetti della vita cittadina di allora, una sovrastruttura di ostentata e retorica grandezza, che era stata la città dei Cesari. Cesare ed Augusto, rievocati ad ogni occasione dai retori dell’era nuova, lo ossessionavano; l’eroismo, che era diventato la legge della vita nazionale, gli dava maledettamente sui nervi, al punto di fargli dire, parlando in sordina con gli amici più intimi:
Conosci tu il tuo paese,
retto da leggi buone,
dove ogni vil borghese
sia solo un pecorone?
dove non debba tutti
esser eroi per legge?
dove il tosato gregge
Un despota non sfrutti?
dove nessuno porti
nastrini e distintivi?
che lasci in pace i morti?
che non disturbi i vivi?
E rimpiangeva Napoli, dove aveva trascorso degli anni felici, dove era sempre quasi follemente innamorato, lui che aveva tanto scherzato sui grandi amori.
da Il Megalomane – Sonzogno, Milano, 1946, pag. 8-10
Filippo aveva conosciuto il barone Montalto, un pomeriggio di domenica in cui questi era andato a prendere un tè da Livia, in compagnia dei coniugi Seppia e di altri amici.
Aveva sofferto le pene dell’inferno, povero Filippo, nel vedere la confidenza con cui il barone trattava la padrona di casa e la disinvoltura con cui la prendeva continuamente per le mani e le rivolgeva i più audaci complimenti, senza che ella reagisse, anzi, quasi assecondandolo con le sue allegre risate e le sue scherzose minacce.
Quelle visite si ripetevano con una certa frequenza, e Filippo, accostandosi alla porta che divideva il suo studio dall’appartamento di Livia, sentiva l’eco delle risa e della conversazione e fremeva di gelosia, amareggiato di non essere chiamato a partecipare al piccolo ricevimento. Amareggiato e anche un po’ offeso: egli non si rendeva conto che la sua presenza potesse essere indesiderata. Invece, Livia provava un invincibile imbarazzo quando lo strano personaggio capitava in mezzo ai suoi ospiti; d’altronde, sapeva che Seppia, il quale aveva, nei riguardi di lui, la coda di paglia, dopo la truffa del “Cupolone” (perché, a voler dare alle cose il loro nome reale, si era trattato di una vera e propria truffa), preferiva non vederlo.
Filippo, intanto, si era convinto di avere, ormai, degli imprescrittibili diritti sul cuore di Livia, pur non essendo ancora riuscito a fare un sol passo nei suoi progetti di conquista e a portare i suoi rapporti con lei su un piano stabile. E viveva in una alternativa di speranze e di delusioni. Ogni tanto, sembrava che essa stesse lì lì per cadergli fra le braccia, solo che egli lo avesse voluto, e, poche ore dopo, bisognava cominciare tutto da capo e conquistarla di nuovo, quasi che, durante la sua assenza, qualcuno si divertisse a distruggere il suo paziente e tenace lavoro.
Ma una sera, finalmente, ella accettò di andar sola con lui al teatro all’aperto di Villa Borghese, dove si dava uno spettacolo di varietà. Era una sera di giugno tiepida e molle, una di quelle serate di benessere in cui ci si sente felici di vivere. L’aria accarezzava l narici e scendeva nei polmoni satura di mille profumi.
da Il Megalomane – Sonzogno, Milano, 1946, pag. 165-166
Filippo rioccupò il suo antico tavolo, fra il dottor Cocito e il ragionier Megali, e sul riquadro di cartone, incollato sulla porta d’ingresso dell’ufficio, dalla parte del corridoio, dove raffiguravano i nomi e le qualifiche dei tre funzionari, il “cav.”, che precedeva il nome Filippo Zurzoli, primo disegnatore, fu solennemente modificato in “comm.”.
Ma un’altra cosa, oltre a quel titolo, era rimasta a Filippo della passata grandezza. Ed egli poggiò sul tavolo, nella vistosa cornice in cui l’aveva sistemata, la fotografia donatagli un giorno dal capo del governo con la dedica: “All’intrepido e geniale costruttore Filippo Zurzoli”. Anche quella fotografia, in altri tempi, gli era sembrata un sogno: ora, l’aveva lì dinanzi e tutti correvano ad ammirarla con rispetto stupore. E quel titolo e quella dedica lo aumentavano enormemente agli occhi dei subalterni, dei colleghi e degli stessi superiori; forse, perché non aveva più nella vita grandi aspirazioni. Sì, soltanto un’altra: essere promosso disegnatore principale.
Lo stesso direttore generale si degnò di ricevere Zurzoli in udienza privata, si congratulò con lui e lo intrattenne in cordiale colloquio, annunziandogli che lo avrebbe promosso subito per l’avanzamento. E mantenne la promessa.
Quando la nomina venne e Filippo, al colmo della gioia, comunicò alle sorelle la sua promozione a disegnatore principale, queste tremarono al pensiero che il fratello tornasse di nuovo a farneticare, in preda a un delirio di grandezza. Una ricaduta?
– Gesù Gesù…
Ma la notizia era vera e Filippo invitò pochi intimi a casa sua, dove le sorelle avevano preparato un rinfresco.
– Ad maiora!” – brindò il dottor Cocito, alzando il bicchiere.
– Chi Sto arrivando! Se un giorno non potrai anche costruirti una casetta al mare! – sussurrò Concetta, sorridendo, all’orecchio del fratello, che appariva sinceramente commosso, al punto da asciugarsi una lacrima.
Lui, che era stato il governatore delle Due Sicilie.
da Il Megalomane – Sonzogno, Milano, 1946, pag. 479-480