Prima Edizione – Zanichelli – 1930

Altre Edizioni:

  • Storia romana in versi – Signorelli, Roma, 1939
  • Storia romana in versi – Signorelli, Roma 1948
  • Storia di Roma in versi – Hoepli, Milano, 1961
  • Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007
  • Dopo che ha Romolo Roma fondata: ovvero Storia romana in versi dalle origini al crollo… – Mursia, Milano, 1988


LA LEGGENDA

In tempi lontanissimi, 
avvolti dal mistero, 
in cui vaga lo spirito
fra la leggenda e il vero,

quando non esistevano
ancor carta ed inchiostro
– cose che tanto abbondano, 
invece al tempo nostro, –

né v’erano storiografi, 
filosofi, scrittori, 
sorse su un colle un’umile, 
borgata di pastori,

così modesta e povera
che un solco ebbe per cuna.
Ma in grembo la portarono
la Gloria e la Fortuna;

e da quel colle mitico, 
da quel solco fecondo
discese irresistibile
a conquistare il mondo.

In quel remoto secolo, 
quando quel borgo sorse, 
non ne parlò la cronaca, 
nessuno se n’accorse;

ma quando l’ineffabile
poema della gloria
confuse le sue pagine
con quelle della storia,

si ricercò l’origine
della città stupenda:
i vati la cantarono
e nacque la leggenda.

Poiché, interpostisi
spietati dei, 
Troia distrussero
gl’invitti Achei,

Enea, partendosi
dai lidi amati, 
approdò profugo
coi suoi penati,

dopo lunghissimo
peregrinare, 
là dove il Tevere
sbocca nel mare.

Qui, su una piccola
tribù guerriera
e industre, il nobile
Latino impera,

che in festa l’ospite
regale accoglie
e gli dà in seguito
la figlia in moglie.

Ascanio, il giovane
figlio ed erede
d’Enea, del prospero
regno la sede

vuol che nell’inclita
città si ponga
ch’egli medesimo
fondò: Albalonga.

E per tre secoli, 
di padre in figlio
i re si seguono
senza scompiglio,

sempre in buon ordine, 
con pace e amore, 
fino al mitissimo
re Numitore.

Ha questi un giovane
fratello, indegno, 
privo di scrupoli, 
che aspira al regno:

è Amulio. Il perfido, 
coi suoi devoti, 
chiude il re in carcere, 
fa dei nipoti

una terribile
carneficina
ed a Rea Silvia, 
ch’è una bambina,

figlia superstite
del suo rivale, 
mette la tonaca
della vestale.

Così chiamavansi
certe donzelle, 
dannate ad essere
sempre zitelle

e che dovevano
tenere desta
la fiamma mistica
della dea Vesta.

Ma un dì la vergine, 
distratta un poco, 
pur mentre vigila
sul sacro fuoco,

due rosei pargoli
si vede intorno:
cose che accadono
pure oggigiorno.

A quanto narrano
le antiche carte, 
dal cielo piovere
li fece Marte,

forse servendosi
d’una cicogna.
Amulio strepita:
“Bella vergogna!”

(che sciocco!) ed ordina
che immantinenti
sian dati al Tevere
quegl’innocenti.

Ma il suo domestico
non l’ubbidiva:
depose i pargoli
presso la riva.

Sui loro gemiti
la notte cupa
piomba; dai gelidi
boschi una lupa

scesa, dei miseri
bimbi s’accorge e
lor le turgide
mammelle porge.

Un certo Faustolo, 
capo mandriano
– a quel che dicono –
del re inumano,

impietositosi
poi li raccoglie
e a casa reduce, 
li dà a sua moglie.

I bimbi crescono; 
robusti e pronti; 
cacciando corrono
le selve e i monti:

fermezza d’animo, 
coraggio estremo
caratterizzano
Romolo e Remo.

Poi, dell’origine
loro informati, 
ad Alba accorrono
con molti armati,

Amulio uccidono
– l’usurpatore –
e riproclamano
re Numitore.

Indi decidono
che una città
in riva al Tevere
sorger dovrà.

Ma, le fatidiche
mura finite, 
tra loro acerrima, 
scoppia una lite,

poiché presentasi
l’arduo problema:
chiamarla Romola?
chiamarla Rema?

E Remo indocile
per sua sventura
salta, violandole, 
le sacre mura;

l’irato Romolo
tosto l’afferra, 
indi cadavere
lo stende a terra.

E ai suoi volgendosi:
“Muoia così, 
chi tenti, incauto, 
passar di qui!…”.

Ventisei secoli
son tramontati:
moriron popoli, 
crollaron stati,

ma ancora mostrano
l’antico orgoglio
la Lupa e l’Aquila
dal Campidoglio.

da Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007 – pag 9-15



ROMOLO RE DI ROMA

Dopo che ha Romolo
Roma fondata, 
vorrebbe renderla
più popolata;

e della logica
seguendo il filo, 
pensa ch’è l’unica
farne un asilo,

nel quale vengano
ricoverati
banditi, profughi, 
perseguitati.

L’editto comodo, 
naturalmente, 
fa a Roma accorrere
parecchia gente,

ch’ha qualche crimine
sulla coscienza; 
ma il saggio Romolo
dice: ” Pazienza!

Conosco un metodo ch’è
fra i più adatti
ed infallibili
castigamatti… “.

Infatti vedono, 
quei malfattori, 
dodici uomini
detti littori

che armati girano
di verghe e scuri; 
chi ha delle fisime, 
si rassicuri:

C’è il ” fascio ” mobile
che uccide o sferza.
Tutti capiscono:
qui non si scherza!

Romolo ai nobili
compagni suoi
e ai galantuomini
venuti poi

dà questo titolo:
patrizi o padri; 
mentre quegli ultimi, 
banditi o ladri,

venuti a chiedere
asilo, rei
senz’alcun merito, 
chiama plebei.

fra i primi, in sèguito
sceglie i migliori, 
formando l’ordine
dei senatori:

cento ne nomina, 
che in ogni affare
s’assume l’obbligo
di consultare.

Pensa ora Romolo, 
cervello insonne:
“Vi sono gli uomini, 
ma non le donne”.

Se adesso il celibe
è volontario
e trova comodo
nutrir l’erario,

a Roma càpita
che l’ammogliato
è invece un essere
privilegiato.

Sembra una favola, 
ma ciò non toglie
che a Roma gli uomini
non trovan moglie;

e invan ricorrono
presso i vicini, 
che li ritengono
ladri e assassini:

di questo il popolo
soffre e si lagna
(tornasse, o femmine, 
quella cuccagna!…).

Ma un giorno Romolo, 
sempre geniale, 
offre una piccola
festa rurale

e invita il pubblico
delle vicine
popolatissime
città sabine.

Mentre la musica
rintrona in piazza, 
si getta un milite
su una ragazza;

è il segno: rapidi, 
gli altri Romani
sulle più giovani, 
metton le mani


e, trascinatele
nelle lor case, 
con spicci metodi
le fan persuase.

Infuriatissimi
fratelli e padri
lottano, strillano:
– Romani ladri!…-

Fatica inutile, 
ché, inermi e scarsi, 
presto finiscono
col ritirarsi.

Ma armati tornano
d’archi e bastoni
pronti ad uccidere
quei birbaccioni

e si riazzuffano
spietati. Infine, 
giungon le povere
donne sabine.

Veduto avevano
che, dopo tutto, 
non era il diavolo
poi tanto brutto.

Si gettan sùbito
fra i combattenti
ed: – Ormai, gridano, 
siete parenti!

Non ammazzatevi:
siam figlie e spose!-
E pianti, gemiti, 
voci affannose,

sì che ne furono
impietositi
e s’abbracciarono
padri e mariti.

Allor quel popolo
– la rabbia doma –
si fonde in unico
Stato con Roma,

che un poco estendesi, 
così, nel Lazio, 
regnando Romolo
con Titio Tazio.

Questi una pessima
fama si crea; 
un giorno provoca
l’ira plebea

e, poche chiacchiere, 
viene ammazzato:
rimane Romolo
re incontrastato,

che con l’esercito
– dieci coorti
d’armati véliti, 
pochi ma forti –

conduce a termine
felici guerre
e accresce il numero
delle sue terre.

Sennonché, capita
che un dì nefando, 
mentre l’esercito
sta rassegnando,

scoppia terribile
una tempesta, 
per cui rincasano
tutti alla lesta.

scompare Romolo
all’improvviso, 
la plebe mormora
ch’è stato ucciso

e, indignatissima, 
fra i senatori
cerca i probabili
cospiratori.

Ma Giulio Pròculo, 
grande patrizio, 
a cui s’accredita
molto giudizio,

giura che Romolo
gli era comparso, 
tutto di fulgida
luce cosparso,

assicurandogli
con gesti pii
ch’egli era reduce
fra i patrî iddii.

Pronto a convincersi, 
il popolino
del morto Romolo
fa il dio Quirino

e un tempio edifica
su un colle, il quale
da allora ha il termine
di Quirinale.

da Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007 – pag 19 – 25



LOTTE FRA PATRIZI E PLEBEI

Intanto, si delibera
che debbasi il diritto
vigente esporre al pubblico
redatto per iscritto.

Una missione apposita
nell’Ellade si reca
e studia l’impeccabile
legislazione greca.

S’eleggon dieci nobili
(i quali, per l’appunto, 
il nome di decemviri
in carica hanno assunto),

che son della repubblica
il solo magistrato:
sono aboliti i consoli
ed anche il tribunato.

Frutto d’un anno fervido
di studio e di lavoro, 
le leggi, in dieci tavole, 
s’espongono nel Foro.

Vantaggi incalcolabili
ne traggono i plebei.
L’anno seguente, eleggonsi
dieci altri legulei,

che, proseguendo l’opera
con senno ed equità, 
aggiungono due tavole
a quelle esposte già.

Ma quei signori trovano
comodo assai quel posto:
scaduto l’anno, vogliono
restarci ad ogni costo.

E, instauran la tirannide
più odiosa: chi protesta, 
o va diritto in carcere, 
o gli si fa la festa.

Il più cattivo d’animo, 
il perfido Appio Claudio, 
che bei sesterzi sperpera
vivendo in festa e in gaudio,

adocchia la bellissima
figliola di Virginio
e, senza tanti scrupoli, 
commette un abominio:

poiché non gli vuol cedere
la vergine plebea, 
egli, con arti subdole, 
un vile intrigo crea,

coi mezzi che la carica
altissima gli dava, 
riuscendo quella vittima
a dichiarar sua schiava.

Ma il padre, onesto milite, 
per evitar che sia
sua figlia dell’ignobile
decemviro in balìa,

la uccide; indi l’esercito
solleva e il popolino, 
che minacciosi accampansi
sul solito Aventino.

Deposta è dei decemviri
la malfamata cricca; 
per evitar il pubblico
processo, Appio s’impicca.

Or coi tribuni e i consoli
s’eleggon due censori, 
a cui spetta la nomina
dei nuovi senatori,

il censimento e, in seguito, 
ancor la sorveglianza, 
estremamente rigida, 
non sol della finanza,

ma dei costumi pubblici, 
ché le matrone, intanto, 
pare che già comincino
a esagerare alquanto.

I due questori creansi, 
patrizi: son costoro
che amministrare debbono
il pubblico tesoro;

se ne raddoppia il numero, 
poi, dopo lotte nuove; 
ed i plebei v’accedono
nel quattrocentonove.

La plebe ottiene subito
dei nuovi benefizi, 
perché le si concedono
le nozze coi patrizi.

Così, pian piano il popolo
matura e in alto ascende:
la parità politica
completa ormai pretende.

Sol dopo eventi tragici
e disperate tregue, 
(scendon su Roma i barbari)
nel secolo che segue,

delle discordie civiche
finisce il piagnisteo:
vedremo accanto al nobile
il console plebeo.

da Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007 – pag 68 – 72




LA CONGIURA DI CATILINA

Intanto la repubblica
è in piena decadenza:
non più la legge domina, 
ma i brogli e la violenza.

Durante i lunghi torbidi, 
se molti cittadini
con la confisca persero
le terre ed i quattrini,

altrettanti salirono
in rapida fortuna, 
non solo senza meriti, 
senza fatica alcuna,

ma di delitti ignobili
macchiandosi: costoro
han fatto un folle sperpero
delle ricchezze loro

ed or se la passeggiano
senza un sesterzio in tasca, 
fiutando il vento, a cogliervi
odore di burrasca.

La gente immiseritasi
per opera di Silla
contro il Senato autocrate
il popolo sobilla,

ché tutta ormai rigurgita
l’Italia di proscritti, 
i quali in patria tornano
randagi e derelitti.

Aggiungi molti giovani
patrizi dissoluti, 
che, per pagare i debiti
da cui sono premuti,

non c’è malvagio crimine
che lascino intentato, 
pur di potersi rendere
padroni dello Stato.

Fa parte di questi ultimi
un Lucio Catilina, 
nato di stirpe nobile, 
già ricco, ora in rovina.

Terribile carnefice
di Silla, di sua mano
ha fatto a pezzi – dicono –
suo figlio e un suo germano:

per tanti insigni meriti, 
quel nobile signore
aspira ad esser console, 
forse anche imperatore;

e poi ch’eletti vengono
Antonio e Cicerone, 
a capo d’un tristissimo
complotto egli si pone.

Fa un piano demoniaco:
a lui si sono uniti
quanti in città si trovano
sillani impoveriti,

servi ribelli e profughi, 
plebei stanchi, patrizi
senza risorse, carichi
di debiti e di vizi,

e la canaglia anonima
che brulica intristita
e turbolenta ai margini
melmosi della vita.

Con essi vuole insorgere, 
dar fuoco a ogni quartiere
terrificando il popolo, 
e assumere il potere.

Della congiura subdola
venuto a cognizione, 
con dire eloquentissimo
lo investe Cicerone:

– E fino a quando, perfido, 
della pazienza nostra
abuserai?…- Quel cinico
la sua freddezza mostra,

all’indignato console
con molto vilipendio
dicendo:- E in questo stupido
favoleggiato incendio,

che avresti mai da perdere, 
i beni ed il villino, 
tu, nato in una misera
casupola d’Arpino?-

Ma balza su la curia
e quell’iniquo grida
nemico della patria, 
nefando e parricida.

Coi suoi compagni, cauto, 
s’invola Catilina, 
tentando di raggiungere
la Gallia Cisalpina.

A Roma tratti in carcere, 
parecchi congiurati
per ordine del console
son subito strozzati;

ma il capo, per miracolo
scampato a tempo al boia, 
con un minuto esercito
rifugiasi a Pistoia.

Antonio e Quinto Celere
raggiungono l’audace, 
lo vincono e l’ammazzano
con ogni suo seguace;

però – riconosciamolo –
come un romano vero, 
come un eroe magnifico
morì quel masnadiero.

A Roma Marco Tullio, 
il re degli oratori, 
di padre della patria
ha il titolo e gli onori,

da quello stesso popolo
che un giorno farà festa
dinanzi allo spettacolo
della sua mozza testa!

da Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007 – pag 173 – 177



DECADENZA DELL’IMPERO

Dopo quel tristo incomodo, 
il vecchio Pertinace
ristabilisce l’ordine, 
ma in modo assai fugace:

le guardie del pretorio, 
ch’han l’ordine a dispetto, 
dopo tre mesi, ammazzano
quel povero vecchietto,

e vendicato Commodo, 
da loro assai rimpianto, 
offron l’impero al pubblico
mettendolo all’incanto.

Infine si delibera
e si proclama sire, 
al prezzo (occasionissima!)
di settemila lire,

il senatore Didio.
Giuliano, imbelle e tristo, 
che dové dirsi sùbito:
“Ho fatto un bell’acquisto!…”

Dopo due mesi e spiccioli
di malgoverno, Didio
dalle sue stesse guardie
fu ucciso in un eccidio.

Dopo cruenti torbidi, 
è Settimio Severo
che resta incontrastabile
padrone dell’impero.

È nato a Leptis d’Africa.
Imita Silla e Mario, 
dal primo disfacendosi
all’ultimo avversario:

stragi, confische, esilii, 
giorni funesti e neri!
Ma dopo, circondatosi
di saggi consiglieri,

egli si mostra un principe
forse tra i più benigni:
adorna Roma d’opere
e monumenti insigni;

il dissestato erario
restaura, e le legioni
e il popolo benefica
con ricche elargizioni.

Il brigantaggio sradica, 
che infesta le province; 
con agguerrito esercito
va contro i Parti e vince;

dopo, l’Egitto visita, 
sedando aspri tumulti.
Servendosi dell’opera
dei suoi giureconsulti,

fra i quali celeberrimi
Modestino ed Ulpiano, 
accresce i già vastissimi
diritti del sovrano

e dà – ridotto al minimo
il poter senatorio –
lo Stato in mano al principe
e al capo del pretorio.

Sconfitti i Caledonii, 
dopo una lunga guerra, 
già vecchio, muore a Ebòraco, 
città dell’Inghilterra.

È questo grande Cesare
che prima di morire
vuol veder l’urna funebre
dov’egli andrà a finire:

“E sarai tu che chiudere”
dovrai, misero pondo, 
– dice – colui cui piccolo
sembrò l’immenso mondo!

Lascia il trono Settimio
a Caracalla e Geta, 
suoi figli, i quali vivono
in discordia completa;

già fin da bimbi un odio
tenace li avvelena, 
che adesso irrefrenabile
fra loro si scatena.

Pessimi entrambi, spartono
in due metà la corte, 
mettendo guardie al limite, 
murandone le porte.

La madre, che non tollera
le pubbliche lagnanze, 
ottien che i due s’abbocchino
nelle sue stesse stanze;

ma Caracalla, perfido, 
la spada in petto caccia
a Geta, rifugiatosi
fra le materne braccia.

Ed or contro i medesimi
seguaci del fratello
spietatamente volgesi, 
facendone macello:

venti migliaia d’anime, 
d’ogni età, d’ogni sesso, 
sacrificate vengono
a quel feroce ossesso.

Papiniano è vittima
dell’efferato eccidio
per non voler difendere
l’infame fratricidio.

Da Roma allontanatasi
quell’ira belluina, 
non lascia immune un angolo
da strage e da rapina.

E con saccheggi orribili, 
supplizi ed estorsioni
toglie il danaro al popolo
per darlo alle legioni. –

Il nome suo, sinonimo
d’orrore e di delitto, 
quest’uomo funestissimo
lega a un famoso editto:

non già per bontà d’animo, 
ma, in cerca di contanti, 
per far pagar le decime
a tutti gli abitanti,

proclama tutti i sudditi
viventi entro i confini, 
anche i remoti barbari, 
romani cittadini.

È trucidato in Siria, 
per ordine – si crede –
del capo del pretorio, 
che dopo gli succede,

Macrino, ma che, debole, 
né buono né tiranno, 
volendo metter l’ordine, 
è ucciso dopo un anno.

Allora, per disgrazia
di Roma, viene a galla
Bassiano, un figlio spurio
del truce Caracalla.

La zia di questo in Siria
da tempo già vivea
con le due figlie femmine, 
Soemias e Mammea.

Il figlio di Soemia, 
in seguito alle mene
della madre e dell’avola, 
Cesare eletto viene.

Vestito da pontefice
del sole – onde si noma
come il suo dio, Elagabalo –
giunge acclamato a Roma,

dove senz’altro edifica
un tempio al nuovo nume.
Con lui non han più limiti
lo sfarzo e il malcostume.

Egli introduce d’Asia
vizi, mollezze, usanze:
più grandi turpitudini, 
più folli stravaganze,

più scandalosi sperperi
Roma non vide mai.
L’acqua di rose pullula
nei bagni e nei vivai;

la reggia è tutta porpora, 
oro ed argento; i vini
più prelibati innaffiano
le aiole dei giardini.

Orgie violente, scandali, 
follie: piogge di rose
talor soffocan gli ospiti
di cene favolose.

Nel circo va, su polvere
d’ambra, con gemmeo scudo
tratto da ignude vergini, 
l’imperatore ignudo.

Dirige l’ancor giovane
e depravata madre
un senato sui generis
di femmine leggiadre,

che sopratutto s’occupa
di leggi sulla moda
e gli atti del bel principe
pubblicamente loda.

Dopo quattro anni ignobili, 
per quanto scellerate, 
le guardie del pretorio
insorsero indignate

e, con la madre e gl’intimi, 
assassinato venne
quel mostro di lussuria, 
appena diciottenne

Già molto caro al popolo, 
imperator si crea
un Alessandro, l’unico
figliolo di Mammea,

cugino d’Elagabalo, 
adolescente austero, 
onde al suo nome il titolo
fu aggiunto di Severo.

Virtuoso, maturatosi
alla divina fiamma
delle dottrine classiche, 
guidato dalla mamma

intelligente, energica, 
appena al trono alzato, 
s’assume un arduo compito:
ricostruir lo Stato.

Vana fatica: corrono
tempi nefandi e bui!
Un giorno le sue guardie
osan dinanzi a lui

assassinare il celebre
giureconsulto Ulpiano, 
prefetto del pretorio, 
che troppo è saggio e umano.

Intanto regna in Partica
un nuovo re, Artaserse, 
che tenta di riprendere
le antiche terre perse;

deve sul luogo accorrere
lo stesso imperatore, 
che con potente esercito
ricaccia l’invasore.

Dopo un trionfo splendido, 
va, di fiducia pieno, 
a soggiogare i barbari
che affacciansi sul Reno.

Ma un generale erculeo, 
chiamato Massimino, 
ch’è giunto a quella carica
da trace contadino,

un poderoso barbaro
alto due metri e mezzo, 
che ostenta per il principe
il massimo disprezzo,

temuto e ammiratissimo
per la sua rara possa, 
nel turbolento esercito
capeggia una sommossa:

un giorno, ucciso il giovane
sovrano a tradimento, 
è proclamato Cesare
quel trace truculento.

da Storia romana in versi – Pancallo, Locri, 2007 – pag 244-252